Capitolo 7 - Contenuti extra

PERCHE’ LO “STAR SYSTEM” STAZIONA NELLA RIPETIZIONE / RIELABORAZIONE DI FORME

Saggio di Pasquale Cascella - Parte Seconda © - 11 maggio 2023

 

 

Ho messo piede nel Guggenheim di Gehry a Bilbao, nel MaXXI di Zaha Hadid, nella Nuvola di Fuksas; ho visto l’esterno e la sezione dell’Auditorium di Renzo Piano; un allestimento-ponte di Hadid a Saragozza, un complesso di Eisenman a Milano, Microsoft a Milano di Herzog & De Meuron; Meier all’Ara Pacis, il grattacielo di J. Nouvel a Barcellona, e sempre di Piano il Centro Pompidou a Parigi e la chiesa di S. Giovanni Rotondo.

 

Il Guggenheim di Bilbao è solo un grande arredo urbano che rivitalizza un’area abbandonata, ma non un museo, negli spazi espositivi ricordo sempre luce elettrica.

 

Il MaXXI, altro museo che sembra snobbare anziché accogliere la funzione, per dirla con uno che passa la vita tra opere d’arte ed esposizioni, Sgarbi: "…Arriva al paradosso di offrirsi come uno spazio che non deve essere disturbato dalle opere: vuoto sarebbe la massima esaltazione dell’opera di Zaha Hadid…". Zaha Hadid dichiarò che il suo intento era di progettare un luogo dove “tuffarsi e lasciarsi trasportare alla deriva attraverso percorsi sempre diversi”. Nell’atrio possono esserci queste sensazioni ma poi si entra in tubi/gallerie, cui le curve conferiscono dinamica, ma sempre unidirezionali restano, l’opposto della barca alla deriva. Per non parlare dell’esterno, statico nonostante i vezzi: i pilastrini a serie, la parete in cemento su cui si ‘affloscia’, spento, uno dei tubi, il tutto in cemento speciale…frutto di una ricerca industriale commissionata al produttore di calcestruzzo affinché il faccia-vista risulti più ‘liscio’ e senza i naturali giunti. Sperpero inutile anche dal punto di vista formale, la sostanza non cambia. Opera costata il triplo del dovuto, 150 milioni dell’epoca per 27.000 mq. dei quali quanti utili per le esposizioni e quanti per la finalità formale? E’ già in programma il “Grande MaXXI” che a giudizio del vincitore del concorso di progettazione dovrà “completare le sistemazioni precedenti dando forza al progetto di Zaha Hadid..."

Non poteva dire "fornendo spazi utili che mancano".

 

La Nuvola il contrario del suo nome: niente di leggero, niente che “vola”, ma un’enormità di acciaio rivestito di tessuto dentro una gabbia metallica che annienta qualsiasi trasparenza.

 

Povera Ara Pacis soggetta al tramonto trasteverino che produce sulla scultura una visione a strisce, in ombra o “sparate”, abbaglianti, per effetto delle pale di schermatura solare poste sulla vetrata Ovest. Indefinibile la chiesa di S. Giovanni Rotondo: archi metallici conficcati a terra… Nel Centro Pompidou l’invenzione, la “gerberette”, è di Peter Rice.

 

Ho anche visto il grande habitat di Bofill a Barcellona, il ponte pedonale di Calatrava a Bilbao, la città della Scienza a Valencia; di D’Olivo la Casa del Fanciullo; la chiesa sull’autostrada e la stazione di Michelucci a Firenze; a Londra gli esterni del grattacielo di Foster con la struttura metallica a diagrid e i Lloyd's di Rogers (entrare dentro è impossibile per un turista); Terragni a Como.

 

Tra il primo gruppo di progetti ed il secondo c’è un Mar Rosso che li divide. I primi stazionano in una penisola chiusa, dediti alla rielaborazione di forme prescelte cui il processo di “ingegnerizzazione” consente la realizzazione e il lusso/lustro dell’esibizione. Il secondo sta sull’altra sponda, dove nacque l’architettura, della quale, almeno parzialmente, possono far parte.

 

Devo necessariamente introdurre il mio percorso formativo per poter far comprendere da dove deriva questa chiave di lettura delle costruzioni contemporanee più note.

 

Sul finire degli anni sessanta e i primi anni settanta, alla Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma, dove ho studiato, storia dell’architettura la insegnava Bruno Zevi che, in quegli anni, era abbastanza “liberale”: i quattro grandi del moderno erano Le Corbusier, Wright, Gropius e Mies van der Rohe. Poi capitavi con chi ti parlava di Kahn o della “tendenza”, ma anche con chi ti sorprendeva (come successe a me) con Archigram, Soleri e i metabolisti giapponesi. Fu un assistente di Lambertucci a dirci “cari miei dovete studiare anche l’utopia”. Così scoprii che si andavano disegnando architetture che riformulavano le basi del costruire e del vivere contemporaneo.

 

Poi, per un esame complementare, arredamento, andai ad assistere ad una lezione di Sacripanti e Pellegrin insieme. In breve mi ritrovai nello studio/laboratorio di Via dei Lucchesi, dove, negli anni successivi, frequentai una università notturna, parallela a quella ufficiale dove si davano gli esami. Lì, da mezzanotte in poi, entravi ed aspettavi che Pellegrin ti ricevesse per la “revisione” dei disegni che avevi prodotto (a matita altrimenti ti cacciava, perché se avevi passato a china significava che avevi avuto la pretesa di considerare conclusa la tua “ricerca progettuale”). Esami e lavoro per mantenerti di giorno, di notte disegni e revisioni dei progetti “veri”, quelli di ricerca.

 

Alla fine riuscii a laurearmi con Pellegrin: evento, dato che non più di uno su cento riusciva a non mollare. Novantanove si trovavano un altro corso e l’un per cento, per la laurea, in genere andava da un altro relatore. Per lui la ricerca non era mai conclusa, ed aveva pure ragione, ma, per poter “chiudere”, anche i più capaci e tenaci, al momento di laurearsi, si iscrivevano con Sacripanti o Musmeci (mecojoni!!) i quali prendevano solo chi dai disegni dimostrava di avere qualità e interesse per l’innovazione e per una tecnologia finalizzata a dare risposte alle necessità della vita contemporanea e futura, ma comprendendo che il tutto si dovesse svolgere in un arco temporale accettabile.

 

Un terzo maestro - dopo Soleri e Pellegrin - me lo scelsi quando ero già laureato e avevo il mio studio e i miei incarichi. Mi piacevano i suoi disegni, i suoi schizzi, così sintetici. Chiesi all’amico Ildebrando Casciotta di presentarmi a Marcello D’Olivo, da cui lavorava a periodi, per chiedergli di collaborare ad alcuni suoi progetti. Con Brando ci stavamo misurando in un concorso, ossessivo nel bando, il “The Peak ad Hong Kong“, poi vinto da Zaha Hadid con disegni ben lontani dalle richieste del concorso. Ci presentammo a D’Olivo portando, come curriculum, il plastico di studio che stavamo elaborando per questo concorso. Lui sorrise divertito e, per farci sbrigare a concludere, dato che voleva impiegarci nel progetto per una moschea in Iraq, ancora più divertito disegnò a mano la struttura del corpo sollevato della piscina con sottostante ristorante e invitò l’ing. Caloisi, che al momento lo ospitava nel suo studio di Viale Bruno Bozzi, a partecipare al concorso con noi (cosa che fece).

 

Nei tre mesi successivi fui addetto a tradurre i suoi schizzi (chiarissimi ed inequivocabili) in piante e sezioni mentre Brando faceva le prospettive e Franco Rossi i plastici. Mi diceva sempre di “non fare gli esecutivi”, che si trattava di proposte di massima. Mentre disegnavo per lui lo intervistavo. Lui inizialmente non aveva voglia, ma poi mi rispondeva. Imparare anche in quest’altra “bottega” fu decisivo per una crescita professionale che mi portò a vincere un concorso per il piano urbanistico di un grosso insediamento popolare in Colombia e per vincerne un altro, virtuale, negli anni successivi, con una proposta “rivoluzionaria” per il Sistema Direzionale Orientale di Roma. Da Pellegrin avevo appreso molto sulla necessità di organizzare residenze, lavoro, servizi attraverso composizioni spaziali complesse, sul lavoro progettuale “in sezione”, sulla finalità di liberare il suolo (luogo di tutti) per articolare in alto i volumi contenitori di funzioni tra loro relazionate. Da D’Olivo la pianta. Da una sintesi dei due insegnamenti derivò il successo dei due progetti, in un caso seguito dall’incarico, nell’altro da ascrivere ad un riconoscimento “morale” in quanto la committenza, pur convinta della mia soluzione, mi disse con molto garbo che, ahimè!, non avevo sufficienti connessioni politiche per aspirare ad un seguito. Alla fine poi lo SDO non lo realizzò nessuno. L’ultimo atto di progettazione urbana, degna di questo nome, a Roma, finì miseramente con l’avvento del “pianificar facendo” di Cecchini e Rutelli.

 

Imparare in quest’altra bottega è stato un complemento a ciò che avevo appreso all’università filosofica - e di mestiere al tempo stesso - di Via dei Lucchesi e dai progetti di Soleri (che lui ha sempre definito “necessari” mentre riteneva “utopisti” quelli degli altri che disegnavano e realizzavano insediamenti “insostenibili”). Un giorno chiesi a D’Olivo come gli venne di progettare il Villaggio del Fanciullo con tanti componenti, pur in armonia tra loro, di tale complessità architettonica e strutturale. Un progetto di non grandissime dimensioni che offre un’infinità di sorprendenti quanto accoglienti spazi, ricchi di invenzioni anche nei particolari. Mi rispose: “Nell’immediato dopoguerra, per poter mangiare trovai impiego in un’impresa che doveva ricostruire gli stabilimenti Snia Viscosa bombardati. Per due anni feci lo strutturista disegnando travi che non dovevano cambiare di una virgola l’unico disegno architettonico esistente in scala 1:200. Dovevo usare gli spessori che mi permetteva l’architettonico, immodificabile anche contro la logica strutturale. Dopo questi due anni il progetto del Villaggio del Fanciullo fu un grandissimo ‘sfogo’ in cui potei far confluire architettura e strutture secondo logica”. L’esperienza sul campo gli aveva fatto conoscere le intrinseche proprietà e possibilità del cemento armato, nel Villaggio vennero espresse in materia architettonica.

 

 

 

Paolo Soleri andò negli USA da Wright senza nemmeno parlare l’inglese. Lavorò inizialmente in cucina, poi passò ai tavoli da disegno. Due anni dopo se ne andò via, senza denari, nel deserto circostante dell’Arizona dove costruì una prima casa, metà interrata e metà sotto una calotta. Interni tutti secondo la sua “frugalità elegante”. Poi realizzò Cosanti, dove spazi e manualità danno vita ad un unicum di architettura e decorazione integrata. Mia figlia - che trascorse un mese nella sua comunità di allievi/volontari che da lui si mantenevano lavorando come muratori, fabbri, ceramisti o addetti alle pulizie - mi spiegò che Soleri aveva realizzato questa splendida residenza anche in funzione di ospitare allievi. All’aumentare dei discepoli, non bastando più Cosanti, Soleri iniziò il cantiere perenne di Arcosanti, miniatura della sua concezione urbanistica: habitat che concentra tutte le funzioni e le attività (residenza, lavoro, istruzione, sanità, socialità) circondato da territorio incontaminato. Riduzione massima della necessità di mezzi di trasporto e implementazione assoluta delle possibilità di relazioni e di accesso ai servizi e alla cultura, avendo a portata di mano un territorio pulito. L’opposto di Phoenix o Los Angeles, tutte costruzioni basse in un infinito groviglio di strade e autostrade dove si trascorrono le ore extra-lavorative, quelle del pendolarismo. Tutto per permettere il “sogno” della casa individuale circondata dal giardino, al prezzo di massimizzare consumi energetici e conseguente inquinamento. La visione dell’architettura di Soleri si è sviluppata in parallelo tra conferenze, scritti e progetti, alla ricerca di un possibile abitare nell’era moderna in maniera evoluta senza danni irreversibili per il pianeta. Miniere di disegni dove “alla grande scala” dell’habitat nel suo insieme corrisponde una “miniaturizzazione” degli spazi privati, che però devono risultare del tutto superiori ai modelli vigenti, sia per comfort che per facilità di accesso agli spazi comuni e di lavoro.

 

Pellegrin, come Soleri, andò negli USA poco dopo la laurea. Decisione risultata fondamentale tanto per lo sviluppo del suo percorso professionale che per l’evoluzione della sua concezione di architettura moderna. Negli USA disegnò scuole che furono poi il campo delle sue maggiori realizzazioni; ma soprattutto poté approfondire, dal vivo, la conoscenza delle opere di Wright, della Scuola di Chicago e di Louis Sullivan. Ancora più determinante risultò in seguito la padronanza acquisita dell’inglese che gli permise la conoscenza di Richard Buckminster Fuller, del quale, fino agli anni ’70-’80, in Italia non esistevano testi tradotti. Una volta, non potendomi accontentare dei “flash” che Pellegrin ci dava su Fuller nelle lezioni notturne, feci tradurre dall’inglese alcuni suoi articoli. Negli anni seguenti, finalmente, uscirono dei testi di Fuller anche in italiano. Tra questi, il più importante, quello dell’amico Roberto Grimaldi (Officina Edizioni 1990), anche lui studente a Roma negli stessi anni miei. Il più importante perché oltre ai notissimi progetti delle cupole geodetiche e della torre per appartamenti di 11 piani che pesa meno di una villa in muratura, pubblicò progetti del 1968 pressoché sconosciuti (Triton City, la città galleggiante, la ristrutturazione del centro di Toronto, il Satellite Pro-To-City) ed altri successivi. Con il libro di Roberto mi fu tutto più chiaro. Il maestro dei maestri, Buckminster Fuller, aveva iniziato a preconizzare i problemi di insostenibilità della crescita “estensiva” delle città già negli anni ’20 e ci aveva fornito precisi prototipi fino ai primi anni ‘80. Rispetto ai progetti di Fuller anni ’20-’80 quelli dello Star System imperante oggi risultano sterili e alieni rispetto al nostro tempo, data la loro ostentata indifferenza rispetto alle questioni della sostenibilità e dell’urbanistica anni duemila. Quando ne parlano è una finzione. Rispondono in realtà alle sole istanze della Market-Edilizia e del proprio Ego. Ma la capacità formale, seppur grande, non genera né pensiero, né architettura e men che meno urbanistica.

 

Esaminiamo l’Auditorium di Renzo Piano. Anziché un unico corpo multisale sono stati realizzati tre corpi, a forma di scarabeo, intorno ad una gradinata all’aperto, moltiplicando superfici disperdenti, aree esterne, “attacco a terra” e fondazioni. Tutto per “ridurre il rumore tra le tre sale”? Ma quando mai. Con i tre corpi le superfici esposte al rumore sono aumentate. Sarebbe costato un’enormità di meno con una soluzione a corpo unico tra sale contigue, pur dovendo raggiungere un isolamento acustico assoluto. Inoltre, la struttura di copertura in legno lamellare - con superiori solette in c.a. di notevole spessore, più pacchetto isolante e manto di copertura in piombo - comportò sezioni di travi primarie di notevole altezza. Tra copertura e controsoffitto un enorme spazio “tecnologico”, cui vanno sommate anche le parti tondeggianti “scartate” perché non necessarie. Quanto materiale è stato impiegato in rapporto alle superfici utili? Preciso che la critica è a questo progetto, non a tutta l’opera di Renzo Piano. Il ponte di Genova ad esempio potrebbe stare sull’altra sponda. Lo sponsor del mio ultimo libro “facciate ventilate, elementi di architettura (2019)” doveva scegliere il luogo per la presentazione a Milano. Inizialmente pensò alla Feltrinelli nel nuovo edificio della Google di Herzog/De Meuron. Andai a vederlo. Considerando il progetto nel suo insieme, pensai: se proprio vuoi fare una forma del genere, perché non ti ingegni e la fai pure utile?. Così la critica divenne “operativa” (come aveva denominato Zevi l’esame di storia dell’architettura II) e insieme all’architetto Riccardo Crocetti - che lavorò nel mio studio tra il 1990 e il 2005 e con il quale negli ultimi anni, in partnership, abbiamo realizzato progetti di efficientamento energetico - ci mettemmo all’opera e dai primi schizzi arrivammo ad un livello progettuale praticamente definitivo anche dal punto di vista costruttivo. Furono consultate referenziate aziende di strutture e facciate industrializzate sul sistema portante e sulle facciate “attive” (che producono energia) allo scopo di portare il progetto a livello di prototipo sostenibile anche dal punto di vista economico. Siamo in attesa di occasioni per testare, pur parzialmente, la valenza di questo progetto/ricerca.

 

Entrando nell’Expo di Saragozza, anni fa, tra i vari padiglioni mi colpì un ponte pedonale coperto, realizzato per l’occasione. Spiccava rispetto a tutto il resto, era di Zaha Hadid. Andai a vederlo da vicino. Indubbiamente la ricerca di trame, come avviene per i tessuti, unita ad un’innegabile, eccezionale capacità di generare forme che alludono all’organico (senza esserlo), avevano realizzato un involucro estremamente piacevole ed inaspettato, visto dall’esterno. Variabilità delle forme ricercata anche negli interni, ma qui la penetrazione della luce naturale, conseguente dalla ricerca formale, non funzionava. Grande classe nella scenografia però… La bellezza di un ponte è sempre, in primis, nella struttura. Qui invece viene nascosta. Il ponte è solo un impalcato da “arredare” e da rivestire con forme.

 

Quando andai a Bilbao a vedere il Guggenheim di Gehry, casualmente parcheggiai nei pressi del ponte pedonale realizzato da Santiago Calatrava. Camminandoci, “percependolo” al contatto fisico, netta la sensazione di leggerezza. La dissimmetria strutturale generava poco impiego di materiale. Dissi scherzando a Tiziana, mia compagna nella vita e nei viaggi alla ricerca dell’architettura, “questo ponte si pesa in kg”. Stessa sensazione in molte realizzazioni della Città della Scienza a Valencia. A volte solo “ossa”, a volte invenzioni mobili forse pretesto per comprovarne la fattibilità, per misurare le possibilità dei materiali; ma, usare appieno le potenzialità dei materiali “per forma” è la capacità superiore dei grandi costruttori degli anni nostri e Calatrava in questo ha pochi rivali. Nelle opere di Calatrava il risultato architettonico, e anche artistico, è sempre senza finzioni. Del resto lui stesso si definisce architetto, ingegnere e scultore.

 

Eisenman nel 2019 a Milano ha completato un complesso residenziale. Ho avuto l’opportunità di vederlo a cantiere in ultimazione in quanto le facciate sono opera di un amico ingegnere, inventore di sistemi di facciata, tutti brevettati, sempre ben riusciti e sempre risolvendo incertezze e carenze degli architettonici. Anche in questo caso, con il suo progetto costruttivo, con la produzione dei pezzi nella sua officina e la posa da lui diretta ha permesso al meglio la realizzazione delle facciate curve. Per il resto, aldilà della tecnologia delle facciate, niente di interessante. Anzi, dei tanti edifici esistenti nella zona è l’unico in cui non vorrei abitare.

 

Jean Nouvel a Barcellona ha realizzato una torre con facciata “dinamica”, costituita da 60.000 lamelle trasparenti che la avvolgono quasi completamente. Dovrebbero mitigare il freddo d’inverno nella posizione chiusa (per il conseguente effetto serra) e ridurre gli effetti dei raggi solari d’estate nella posizione aperta. L’intento “bioclimatico” della soluzione è però contraddetto dall’intaglio dell’involucro in c.a., costituito da migliaia di finestre in posizioni che non sempre possono ottimizzare la luce naturale. Per non parlare delle quantità di calcestruzzo e armature impiegati per un grattacielo la cui struttura è costituita da due involucri, a pianta ovale, interamente in c.a., che si innalzano per 142 metri. Il progettista spiega che “...questa torre va interpretata come una massa fluida che ha perforato il suolo, un geyser costantemente sotto pressione… Liscia e continua, ma al tempo stesso vibrante e trasparente, in ragione del materiale, che può apparire colorato e incerto, luminoso e ombreggiante”. Siamo alle solite, al progettista interessava maggiormente la suggestione, l’effetto scenografico. Il tutto finalizzato ad ottenere cangianti cromatismi per il gioco dei riflessi solari sulle schermature. Ok se questo non andasse ad incidere sulla sostenibilità economica ed ambientale del tutto, ma così non è, e quindi: ennesimo esempio negativo dello Star System.

 

 

 

MODERN, UTOPIA, HIGH TECH, DECOSTRUTTIVISMO, STAR SYSTEM, … E DOMANI?

 

Norman Foster dopo la laurea a Manchester andò negli USA dove, a Yale, conseguì un diploma. Lì ebbe modo di valutare lo sviluppo tecnologico raggiunto oltre oceano e, pure lui (!), conoscere Richard Buckminster Fuller, col quale nel 1971 ebbe anche occasione di progettare insieme il teatro ipogeo Samuel Beckett ad Oxford. Negli USA conobbe anche il connazionale Richard Rogers col quale, al ritorno in Gran Bretagna, fondò lo studio Team 4 nel 1963. Dopo quattro anni ognuno per la sua strada ma operando coerentemente con i comuni studi americani. Nacque così l’High Tech, anche se per Foster, giustamente, la sigla non ha senso, in quanto hanno tantomeno senso gli architetti che si collocano fuori dallo sviluppo tecnologico, essenza dell’architettura di qualsiasi epoca. Aggiungerei anche gli architetti che strumentalizzano la tecnologia per fini formali. Qui il cerchio si chiude, anche Foster e Rogers si sono formati con l’insegnamento di Fuller e, non a caso, sono, tra i contemporanei, quelli da cui più si può apprendere, per lo meno di ricerca tecnologica. Forse la sovrabbondanza di incarichi non ha fatto loro riservare del tempo per scrivere o elaborare progetti-ricerca, maggiormente sull’urbanistica del millennio. O forse Pellegrin e Soleri sono stati un’eccezione. Un’applicazione delle strutture di Fuller è riscontrabile nel “30 St Mary Axe” di Foster a Londra. La struttura a diagrid (diagonal grid) e la sua forma cilindrica riducono pesi e superfici disperdenti. Offre uno spazio aperto a terra, un portico definito dalla triangolare struttura del diagrid, ma non vi si può stare, la sicurezza blocca chiunque. Nella City doveva essere l’emergenza simbolo e poi basta. Tuttavia il business ha prevalso e adesso è circondato da tanti altri grattacieli, per lo più molto discutibili. Tra le migliori opere contemporanee tante sono di Foster. Hearst Tower di N.Y., anche questo con struttura perimetrale a diagrid, realizzato lasciando intatta la muratura esterna di sei piani dell’edificio preesistente che diventano l’atrio. E’ alto 180 metri.

La Hearst Tower ha visto un utilizzo ridotto al minimo dell’acciaio (riciclato) ed ha ridotto del 25% il consumo medio di energia elettrica. Certificato LEED (Leadership in Energy and Environmental Design), protocollo americano che analizza sei differenti parametri qualitativi: sostenibilità dell’insediamento, consumo efficiente di acqua, consumo efficiente di energia e contenimento delle emissioni in atmosfera, impiego di materiali e consumo di risorse, qualità degli ambienti indoor, principi di progettazione e innovazione. Il vetro utilizzato per il rivestimento esterno consente la penetrazione della luce solare senza eccessivo riscaldamento dell’aria interna ed inoltre, dei sensori regolano l’intensità della luce artificiale in rapporto a quella naturale.

 

 

Nella sede centrale della Commerzbank a Francoforte si materializza l’aspirazione al grattacielo composto non da piani sempre uguali da terra a cima salvo l’atrio, ma da volumi che si alternano a vuoti, in questo caso adibiti a spazi comuni e verdi.

Ha pianta triangolare con un vuoto centrale che, grazie all’effetto camino, fornisce l’aerazione ai piani superiori dell’edificio. Tutti gli uffici possono essere aerati naturalmente tramite finestre apribili verso questo vuoto interno, mentre il rivestimento esterno rimane chiuso, e solo una quantità controllata d’aria entra attraverso appositi bocchettoni. Quattro piani vuoti attrezzati con verde si alternano a otto piani di uffici, tutti con vista su questi giardini interni e sulla città. Ascensori, scale e aree di servizio sono posizionati ai tre angoli della torre, lasciando libero il vuoto centrale per la funzione bioclimatica. Le strutture primarie verticali d’angolo sono collegate a travi Vierendeel che reggono i solai degli uffici da angolo ad angolo. In questo modo, non solo non ci sono colonne all’interno degli uffici, ma gli spazi giardini (alti quattro piani) risultano totalmente liberi salvo i tre corpi strutturali e delle comunicazioni sui tre angoli.

 

Di Richard Rogers, Pellegrin, sulla rivista l’Architettura, spiegò genesi, valore e limiti (non certo solo di Rogers ma anche di tutti i migliori contemporanei): “…Archigram fu esplosione espressiva di un gruppo che proponeva, in un esuberante e caotico succedersi di espressioni pre-progettuali, un modo diverso di pensare sia l’Architettura che l’Habitat. La scenografia di Walking Cities e di paesaggi urbani sollevati da terra come macro insetti entrarono nell’immaginario architettonico…Alcuni architetti tra cui Rogers hanno sia ridotto che potenziato l’esplosiva proposta Archigram per renderla architettura realizzabile."

L’impulso utopico, il pensare l’insediamento umano su basi sinergiche, che comprendevano il modo di muoversi, di produrre e di abitare fu abbandonato… Fu necessario tornare a elaborare alla scala dell’edificio… L’accettata parzialità riduce il valore del coagulo di espressività formale e tecnologica raggiunta da Rogers e da altri architetti contemporanei. Il suo progetto (non realizzato) per una struttura-ponte sul Tamigi, è forse quello che più rappresenta la complessa visione di un possibile futuro dell’habitat che, senza classificazioni teoriche o formali, suggerisce sia appoggio alla terra, sia libertà di muovere materia e uomini nello spazio.”

Si può fare ottima architettura anche senza grandi mezzi finanziari. Anche in temi dai quali sfugge lo Star System. Come nel complesso di edilizia popolare Walden 7 a Barcellona, di Ricardo Bofill realizzato negli anni ‘70/‘75. Partendo dal centro di Barcellona si arriva con una metro di superfice alla fermata del complesso. La rossa muraglia scalettata si sviluppa per sedici piani d’altezza, ed è caratterizzata da mini bow-window (in realtà piccoli balconi semi-circolari) e da altissimi vuoti che la fendono. Un habitat decisamente innovativo rispetto alle comuni tipologie di case popolari. L’interno è una sequenza di grandi e fresche caverne dove si sviluppano scale, ascensori e piccoli ballatoi. Pur nella grande dimensione ciascun appartamento dispone della sua privacy e di un’ottima vista verso Barcellona e il suo territorio.

Il segreto del progetto è nella sua sezione. I corpi scalettati coprono gli spazi comuni interni. Andrebbe vissuto per valutare le stanze col solo affaccio sui vuoti interni. Ma, al netto di approfondimenti, siamo in presenza di una realizzazione concepita per sconfiggere, o quanto meno ridurre, la massificazione nell’edilizia pubblica, pur con badget da edilizia popolare. Per alcuni aspetti prova di Arcologia (per dirla con Soleri), in scala ridotta.

 

 

 

ARCHITETTURA ITALIANA ANTE (ANCHE ANTI) STAR SYSTEM

 

Michelucci, capace di esaltare ed esaltarsi nel razionalismo di matrice italiana con la Stazione di Firenze degli anni ‘30, dove tutto è controllato, utile, dalla posizione urbanistica al particolare delle sedute; così come, nel dopoguerra, in edifici quali la Cassa di Risparmio di Firenze, dove lo spazio interno, totalmente aperto, è definito e caratterizzato da una semplificazione estrema della struttura; si “scatena” nell’opposto, con l’incarico, senza limiti di spesa e vincoli normativi, della Chiesa sull’Autostrada, dedicata dai committenti ai lavoratori morti per costruire l’arteria Nord-Sud “del Sole” e da lui alle maestranze che lo avevano seguito nella realizzazione.

Inizia il progetto con uno schizzo che rappresenta una articolata tenda sorretta da un unico puntone. La metafora. Poi il progetto prende corpo con le chiusure perimetrali in pietra faccia vista, pilastri e puntoni ad albero in calcestruzzo armato, a volte oltremodo snelli (non oso immaginare le cassaforme che furono costruite per realizzarli). Per Manfredo Tafuri “Michelucci dà vita a un singolare tentativo di forzare la logica architettonica, esponendo una vera e propria battaglia fra la materia, dotata di forze prorompenti, e la struttura,…”. Spazi suggestivi e mutevoli, materie alla fine in equilibrio pur “senza geometria preordinata”, attraverso il costruire: Architettura. Ben diverso il processo di chi arriva al “sempre diverso“ abusando della tecnologia, con sovrabbondanti strutture senza senso, i tessuti, anestetizzando la materia o proponendone una sua “finzione”: Scenografia. “Costruire e Decostruire”?, alla fine più semplicemente “vero e finzione”.

 

Pierluigi Nervi lavorò sempre all’ottimizzazione del rapporto materiali/prestazioni/costi facendo lavorare il c.a. per forma: “Ritengo che se ci adeguiamo ad una comprensione più sensibile delle più sottili relazioni tra ingegneria e forma - se concepiamo la composizione con l’ingegneria, piuttosto che attraverso l’ingegneria - se lavoriamo assieme piuttosto che allontanarci gli uni dagli altri, potremmo giungere ad una relazione tra forma e ingegneria che abbia un significato di gran lunga più ampio per l’architettura futura...”. Mediante solette di piccolo spessore, con all’interno vari strati di rete metallica spessore un millimetro, arrivò a realizzare strutture di grande luce e senza impiego di casseforme in legno, realizzando “gusci” prefabbricati da rendere poi solidali fra loro con getti in opera. Altro che l’opulenza dei progettisti “archistar” che non sono più chiamati a risolvere problemi ma ad impiegare la creatività verso la forma, magari la novità formale, come nella moda.

La forma raggiunta nell’Aula Nervi dalla volta parabolica a doppia curvatura la rende come sospesa per invisibili forze antigravitazionali. Risultato del processo “immaginare/calcolare/costruire” di Nervi, laureatosi a Bologna sia in ingegneria che in architettura, che sempre seguì i principi della leggerezza, della “forma più importante della materia” nelle strutture, del minor impiego possibile di materiale, ma, al tempo stesso, della migliore soluzione funzionale. Concepita come "macchina per vedere e udire", l'aula (80 mt. di luce di calcolo per 6.900 posti a sedere e 14.000 in piedi), presenta una equilibrata luminosità e ottime condizioni di acustica e visibilità per la particolare forma della platea a doppia curvatura.

 

Nella Casa del Fascio di Como, in un lotto piccolo e quadrato, Terragni ricercò la modernità mediante tre principali soluzioni: diverse configurazioni delle facciate (che non intaccano l’unitarietà del blocco compatto rivestito di marmo Botticino); luce naturale con l’impiego di vetrate e vetrocemento in copertura e in parte dei divisori; le trasparenze negli interni. Enorme il patrimonio critico esistente, ma la spiegazione migliore per far comprendere questo organismo è la sua. Sui rivestimenti in pietra: ”Questo rivestimento non va inteso come un fatto decorativistico, ma come una necessità pratica, e come un problema risolto. L’Italia, ricchissima di pietre naturali, è nella fortunata situazione di poter fornire ai suoi architetti moderni la soluzione conveniente del problema delle grandi, nude pareti che la rigorosa esegesi della moderna architettura pretende nelle nostre costruzioni”. Sulla luce e le trasparenze nei divisori interni: “…sono i primi passi verso la casa di vetro. Noi adoriamo il vetro… il vetro rivela ciò che è, non può nascondere, è sinonimo della ‘chiarità’, è l’unico materiale fratello della luce, dell’aria, dello spazio…è per questo che vogliamo costruire la città di vetro… Dare luce, godere luce. Non respingere questo dono perfetto della natura. Le due grandi rivoluzioni dell’architettura: vetro e acciaio. Due materiali che non hanno bisogno di retorica; e nemmeno di anti-retorica”.

 

Il cantiere fu un laboratorio del processo di modernizzazione della tecnologia edilizia in corso in quegli anni in Italia. Fu messo a punto anche un sistema oscurante a tapparelle di dimensioni inusuali, decisivo per la funzionalità delle facciate.

A Como si ritrovano tutti i principi di Terragni, ma tanto altro si può scoprire nei suoi disegni, prodotti anche dal fronte. Tornò dalla Russia provato nel fisico e nella mente perdendo la vita a soli 39 anni. Grazie all’iniziativa del Prof. Flavio Mangione, da quei disegni sono stati ricavati dei 3D che rendono palpabili i progetti che aveva potuto fissare, a volte, anche solo con poche linee su fogli millimetrati. Terragni, morto 80 anni fa, in queste ricostruzioni appare come un contemporaneo più avanti; dimostra che è possibile conciliare modernità, città storica e religione (nel suo caso quella del regime di quegli anni). Sfogliando le pagine del libro “Giuseppe Terragni a Roma” (Mangione, Rubichini,Terragni - Ed. Prospettive) cresce progressivamente il rimpianto pensando ai “dieci progetti romani” non realizzati (soprattutto per il progetto “Casa del Fascio di Portuense-Monteverde”), innestati sulla città piu’ storica del mondo e moderni al tempo stesso. Rimpianto quando vediamo l’Ara Pacis di Meier, nuda nella sua incomprensione della potenza architettonica che la circonda.

 

 

 

POTERE STAR SYSTEM E MANIPOLAZIONI CULTURALI

 

Michelucci, Terragni, Nervi, elevarono il livello dell’architettura e dell’ingegneria italiana. Non furono i soli. Michelucci (architetto, urbanista, incisore) cresciuto in una famiglia proprietaria di una fonderia per la lavorazione del ferro. Terragni figlio di costruttori. Pier Luigi Nervi che per realizzare le sue sempre nuove ideazioni strutturali (e architettoniche) fondò una sua impresa di costruzioni. Michelucci, Terragni, Nervi, che elevarono il livello del costruire, se avessero sentito il verbo “decostruire”…! Ed invece lo Star System ha trovato una presunta base culturale in questo termine, a partire dalla sua codificazione, dovuta a Philip Johnson, cui poi si aggiunse Zevi con parole che segnano una sua totale, quanto non rettificabile, adesione: “Si approda così al ‘grado zero’ di Gehry, che segna l’apoteosi dell’architettura organica, il punto di arrivo della ricerca iniziata da William Morris, articolata da Le Corbusier e Mendelsohn, esaltata dal genio di Wright…”. Nel leggerle scrissi un appunto: “Se Zevi è arrivato a confondere Wright con Gehry vuol dire che ha passato la vita a parlare di architettura moderna senza averne veramente compreso l’essenza e il futuro”. E aggiungo, ha barattato quanto di buono aveva fatto fino allora - basti pensare al libro “Saper vedere l'urbanistica. Ferrara di Biagio Rossetti, Einaudi, 1971” - per dar sfogo allo Zevi-istrione (senza pari) che vuole dimostrare a Portoghesi che alla fine ha vinto lui nella pluridecennale disputa sul Post-Modern e al mondo che l’architettura organica è roba ebraica (Ebraismo e architettura - B. Zevi - ed. Giuntina - 1993). …Assurdità che nemmeno merita di essere presa sul serio, ma, a volerla contraddire, si potrebbe obiettare, ad esempio: “.. e Mario Fiorentino? Non era ebreo anche lui? Mai attaccato da Zevi per aver progettato il più antiumano e simmetrico (il contrario dell’organico secondo Zevi) edificio europeo, salvo forse qualcosa nella già Unione Sovietica. Quel Corviale lungo un chilometro, assurda diga che, tra l’altro, divide in due, in sommità, una splendida collina romana. Risultato? Grazie anche a queste miserie senili, i paraculi si sono ancora più gonfiati, di vanagloria e incarichi.

 

Dunque lo Star System in auge oggi ha raggiunto il suo successo, non solo per capacità mediatico/manageriale (accompagnata da un riconoscibile estro artistico, eccezionale in Zaha Hadid); non solo perché funzionale al marketing dei grossi investimenti immobiliari; ma pure per aver cavalcato, a volte anche gestito, la manipolazione culturale dell’architettura. Manipolazione iniziata a partire dal Post-Modern. Oggi chi ricorda più il Post-Modern? Eppure, a suo tempo, anche un altro grande professore e critico come Paolo Portoghesi vi aderì. Lo stesso Portoghesi che, qualche mese fa, ho trovato direttore scientifico di un ineguagliabile filmato di Folco Quilici sul barocco, di quelli che la RAI manda in onda alle 3/4 del mattino. La forza dello Star System è anche nell’assenza di chi abbia voglia di contrastarlo a livello culturale, sulle riviste e nelle università. Salvo pochi, e tra questi va annoverato Portoghesi il quale, a proposito di manipolazioni, scrisse “Per chi crede che l’architettura sia un aspetto del lavoro umano dotato di una sua specificità conquistata in secoli di esperienze accumulate e crede che questa disciplina possa ancora aiutare l’uomo a stabilire una nuova alleanza con la terra, la casa Lewis (di Gehry) rappresenta la resa incondizionata ai processi autodistruttivi che si delineano all’orizzonte di una società che ha perduto il senso del sacro e trasforma in orgia edonistica la presa d’atto della sua impotenza” (I grandi architetti del Novecento, P. Portoghesi - Newton & Compton editori).

 

Per tutte queste ragioni, lo Star System seguita nell’elaborare e rielaborare forme, in grandi studi e con potenti supporti ingegneristici esterni; occupando lo spazio che invece servirebbe per un’architettura finalizzata a delineare il necessario modo di abitare, nel secolo in corso, nelle metropoli e nelle sterminate megalopoli del mondo.

 

 

 

 

 

 

 Stampa o leggi in formato PDF:

Saggio di Pasquale Cascella, 11 maggio 2023
Perché lo Star System staziona nella rip[...]
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T  H  E     M  A  R  I  N  D  U  C  T

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ACKNOWLEDGMENTS

Even the longest journey begins with a first step! Systemic Habitats is on line since the 18th of May 2012. This website was created to publish online my ebook "Towards a different habitat" on the contemporary architecture and urbanism. Later many other contents were added. For their direct or indirect contribution to its realisation strarting from 2012, we would like to thank: Roberto Vacca, Marco Pizzuti, Fiorenzo and Raffaella Zampieri, Antonella Todeschini, All the Amici di Marco Todeschini, Ecaterina Bagrin, Stefania Ciocchetti, Marcello Leonardi, Joseph Davidovits, Frédéric Davidovits, Rossella Sinisi, Pasquale Cascella, Carlo Cesana, Filippo Schiavetti Arcangeli, Laura Pane, Antonio Montemiglio, Patrizia Piras, Bruno Nicola Rapisarda, Ruberto Ruberti, Marco Cicconcelli, Ezio Prato, Sveva Labriola, Rosario Francalanza, Giacinto Sabellotti, All the Amici di Gigi, Ruth and Ricky Meghiddo, Natalie Edwards, Rafael Schmitd, Nicola Romano, Sergio Bianchi, Cesare Rocchi, Henri Bertand, Philippe Salgarolo, Paolo Piva detto il Pivapao, Norbert Trenkle, Antonietta Toscano, Gaetano Giuseppe Magro, Carlo Blangiforti, Mario Ludovico, Riccardo Viola, Giulio Peruzzi, Ahmed Elgazzar, Warren Teitz, and last but not least Lena Kudryavtseva.  M.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

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