Capitolo 2 - Sulle radici del suo messaggio
QUALE URBANISTICA PER ROMA
Intervista a Luigi Pellegrin di Pasquale Cascella (siamo nel lontano 1986)
di Pasquale Cascella © ripubblicata qui il 12 marzo 2017
[Articolo comparso sul periodico "Dossier delle autonomie - Società. Economia. Istituzioni.", Anno V, 12 dicembre 1985, pagg. 13-17. Nota della Redazione: Che senso ha riproporre questa intervista a Luigi Pellegrin del lontano 1985? In primis, è ancora attuale. In secundis, se sai da dove vieni, forse potrai decidere meglio quale sarà il tuo cammino futuro. E' uno dei pochi documenti scritti con la parola del Maestro. Ad alcuni di noi nessuno ci farà fare mai niente? E chi se ne importa. L'urgenza è aver saputo immaginare una alternativa e un futuro diversi dalla solita melma modaiola oziosa di turno. Non da ultimo, c'è il piacere di sentire la voce dei nostri amici Gigi e Lillo. M.L.]
Quale urbanistica
per Roma
Intervista a Luigi Pellegrin di Pasquale Cascella
Prof. Pellegrin, nell'ultimo numero della rivista "l'Architettura" di Bruno Zevi è pubblicata una monografia dei suoi ultimi progetti e realizzazioni degli anni ottanta. La sua architettura appare a qualsiasi scala fondata sul binomio Socialità - Tecnologia. Qual'è il nesso che lega queste due categorie dell'Architettura nel processo progettuale?
Socialità - Tecnologia è il binomio che si concreta, se accettato nella sua complessità, in sicuro aggancio al reale. Si possono cambiare le due parole in: gente e mezzi di produzione, strumenti del sociale e del lavoro ecc. Accettare questo binomio come base della progettazione è un po' come accettare di entrare in una dimensione contemporanea riduttiva della libertà artistica, ma che protegge dagli ismi e dalle mode.
Chi conosce la tecnologia conosce il lavoro, cioè sa un po' di chi lavora e sa che i lavoratori sono la radice del sociale; è la radice del mio agitarmi nell'ambito socialista.
La ricerca della qualità del Sociale come permanente parametro di giudizio, evita il sovraccarico storicistico e mitiga le tentazioni elitarie, o dottrinarie.
Proporre ad un operaio di oggi un progetto che implica il suo ritorno al fare edilizio di suo nonno, significa invalidare un lungo silenzio di lotte e conquiste.
L'elitario decorativo che sovrabbonda in una tendenza architettonica di oggi [1], è faziosamente anti-Sociale. Il fascino del decorativo, evita per un tempo il concentrarsi sull'infrastrutturale necessario.
La tensione tecnologica è poi chiaramente sempre risultato della tensione al fare nel nostro tempo che chiaramente realizza una sua facciata nella mentalità tecnologica, la forza economica dell'Architettura è certamente rinvenibile anche nei sovvertimenti di scala che la tecnologica produce o induce.
Lei affronta sempre il tema a livello di progetto sia che si tratti di un edificio, sia che si tratti di un piano urbanistico.
Vuol esprimerci la sua opinione sulla metodologia progettuale in materia urbanistica?
Non ho opinioni sulla metodologia urbanistica, ho opinioni sui suoi risultati.
La disciplina urbanistica è figlia diretta della eccessiva volontà dottrinaria del Razionalismo.
Ebbe una madre, non un padre.
Se il disastro ambientale è l'elemento che ci caratterizza, e l'urbanistica ebbe origine precisamente per evitarlo, allora possiamo collaborare a farla crescere in efficiente complessità, solo riaumentando l'idea e prassi di progetto, cioè dandole un padre.
Mi scuso, non ho diritto alla battuta.
La ragione della mia persistenza nel vedere progettualmente le diverse scale, è dovuto a due ragioni:
1 - in mancanza di reale pianificazione, ed è il nostro caso, il progetto anche parziale può parizalmente indurla;
2 - è la reazione dell'azzeramento progettuale che la prassi del Zonizzare ha prodotto.
A tale proposito, in questo numero di Dossier, il Prof. Karrer denuncia ".. l'assurda separazione sancita dall'ordinamento urbanistico tra attività terziarie ed industriali ..." e successivamente continua "... non devono essere trascurati i fabbisogni di integrazione con questi settori da parte della stessa agricoltura ...".
Non ritiene che la stessa "assurda separazione" esiste tra attività produttive e funzioni dell'abitare?
Su questo tema convivono in noi due realtà diverse.
Nel concreto quotidiano sopportiamo disagi, stress, spendiamo sproporzionatamente per muoverci, quali utenti costretti dalla prassi del dividere, della zonizzazione per categorie funzionali, e della frammentazione della giornata in parti da usare in luoghi fra loro non relazionati.
Nacque tutto questo all'inizio del secolo, vi era una mentalità che al limite negativo concepì i lager, che sono eccesso di zonizzazione.
E siamo ancora succubi di quella mentalità. Poi, nella sfera del sogno, della nostalgia, privilegiamo, diamo la nostra completa adesione al modello medioevale di insediamento, fondato sulla completa integrazione fra privato e sociale, fra lavoro e rituale.
Se quella tipologia fosse proponibile significherebbe che la nostra Società ha ripreso il piacere del realizzarsi; cioè ri-condurrebbe all'idea di unità plurifunzionali diffuse nel territorio; la città policentrica in altre parole, dove elettronica ed attuali mezzi di mobilità, potrebbero estendersi ed operare nella pienezza della loro potenzialità.
Ma nel contesto attuale una riduzione del negativo è già scopo di promuovere.
La indicazione del Prof. Karrer è precisa e dimensionata al possibile cambiamento della realtà amministrativa e concettuale di oggi. Estendere la sua indicazione al Residenziale, ritengo sia strategia implicita in quella indicazione.
Ritiene che lo S.D.O. [2], la cosiddetta "città degli uffici", ben rappresentando questa separazione della citttà in zone sia un esempio da inquadrare nel panorama del mancato aggiornamento della dirigenza politica in materia urbanistica e soprattutto economica?
L'SDO è sintomo di blocco più che di ritardo culturale, ma non della classe politica, farebbe comodo crederlo, ma della nsotra Società. Come prassi di progettazione il SDO rappresenta egregiamente più che il ritardo culturale, il degrado di correlazione tra conoscenza-analisi e capacità di progetto della nostra Società in questo momento.
Realizzare il SDO è logico e coerente, se la Società romana non ha l'ambizione [3] di usare la seconda occasione del secolo (la prima durante il fascismo) per superare la condizione di Insediamento culturalmente trainato e quindi in evidente misura, parassitario. E' rilevante che fra la prima, l'occasione fascista che la dotò di un polo ludico [4] e uno direzionale [5] evolutosi poi in direzionale misto, e la seconda quella attuale, non vi siano state differenze sostanziali di prassi.
Non è chiaro al cittadino romano, se si è giunti al SDO per via chiaramente democratica o per via cripticamente democratica. Il cittadino non ha visto - o potuto riflettere su opzioni alternative, non tanto sulla posizione del SDO, ma sul tipo di Direzionalità, o, su una ipotesi di ambiente urbano integrato che ricolleghi il cittadino quale agente attivo complesso, fra il lavoro del direzionale, del comparto terziario e commerciale ecc. - e poi del residenziale.
Oppure non è stato considerato, reso strumento di democratico confronto con un altro modello: l'ambiente integrato di scala metropolitana.
I due modelli, non certo ideali ma efficaci, che distinguono le capitali di paesi civilmente avanzati da quelle dei paesi in via di sviluppo (Lagos - Seul) si esprimono, o attraverso l'aumento di spessore in densità e qualità, delle infrastrutture sviluppate in verticale (Tokyo - Hong-Kong) o nella dilatazione territoriale favorendo la creazione di elementi lineari e poli che sfruttano a pieno gli attuali sistemi di mobilità, permettendo al paesaggio, alla produzione di ossigeno, all'agricoltura di coesistere.
L'SDO non rispecchia nessuna delle caratteristiche dei due modelli.
Se la ragione di ciò fosse da rinvenirsi nella speciale condizione - qualità di Roma, allora, un appello alle forze progettuali italiane o internazionali, sarebbe stato logico, avrebbe fornito energia e proposte per la definizione di una nuova tipologia di crescita, forse squisitamente romana.
Nessun concorso e altro sistema di ricerca è stato indetto; ciò è logico rispetto alla prassi di progetto di governo che cripticamente si è rafforzata in questi anni.
L'SDO, da una aprte dimostra il blocco evolutivo del fare urbanistica, dall'altra l'appianamento di metodologie di potere che si giocano fra due soli protagonisti: le amministrazioni e il grande capitale.
L'area del SDO, è grossolanamente formata da 3 entità:
- proprietà del grande capitale
- proprietà del Demanio
- proprietà di una miriade di piccoli proprietari.
Il fall-out positivo della trasformazione dell'area demaniali, va a beneficio in quantità straordinaria, del grande capitale.
Ma questo è irrilevante rispetto al blocco evolutivo del tipologico urbano che l'SDO rappresenta.
Esso si rivela nel mantenimento del concetto di riqualificazione della Periferia per via di aggiunte in scala suepriore, che annullano praticamente il carattere e la qualità dell'esistente. La rigenerazione di qualità nelle nostre periferie, data la loro enorme estensione fisica, è di per sé, tema nuovo da affrontare. La prassi della semplicistica demolizione non è oggi accettabile economicamente; fu prassi logica prima, nell'economia degli schiavi, e poi, nell'economia con mano d'opera a costi bassissimi.
Oggi, credo sia necessario approfondire il tema cercando di valorizzare aggiunte infrastrutturali e minime demolizioni; è essenziale rispettare o coadiuvare il carattere dell'esistente. E' comunque una delle faccie del nostro tempo.
Qual'è il fattore economico della sovrapposizione? L'idea di sovrapporre un centro direzionale ad una realtà edilizia esistente, in fondo è una ulteriore applicazione della vituperata prassi della macchia d'olio. In questo caso la dilatazione avviene con il costruire il residenziale ai bordi esterni, ma attraverso l'estensione implicita del Centro di Roma sul già costruito. E' la macchia d'olio del direzionale. Sorridendo possiamo dire che l'SDO sostituisce il modello della macchia d'olio con quello sull'impasto.
E' ancora una prassi nell'idea dei riemdi.
Roma dopo la devastazione del Centro nel tempo fascista, e la devastante espansione del tempo di guerra, è stata trattata con parziali rimedi come regola; ora, avendo perso la fisionomia e capacità di comfort urbano, meriterebbe una rimpostazione.
Roma capitale è un motto, una frase che gira. Forse a indicare che esiste la volontà di farla significare quale capitale. Ma, nella aprzialità della soluzione SDO, vi è l'accentuazione della provincialità di Roma.
La posizione dell'SDO, una strettoia fra Centro e Castelli, definisce che la dimesione di Roma, quale centro irradiante non avrà più senso.
Se, per reali difficoltà attuative, l'intera operazione SDO venisse a ridimensionarsi, quali risultati positivi potremmo trarre da un decollo "parziale" dello SDO?
In questa ipotesi di ridimensionamento l'SDO oltre a configurarsi in soluzione parzializzata, potrebbe esprimere anche una preziosa esperienza amministrativa, giuridica nella grande scala.
Se l'SDO dovesse crescere in porzione ridotta dimensionalmente ed inserito in un nuovo complesso pensiero di assetto territoriale ed infrastrutturale, in una idea di clima meno inquinato, potrebbe diventare strumento di sblocco, di credibilità per realizzare le vocazioni di Roma.
Lei parla di Roma come di una città che non ha potuto esprimere negli ultimi trent'anni che una crescita senza programma nonostante la sua funzione di Capitale d'Italia. C'è quindi uno scarto tra vocazione di Roma e quanto Roma oggi esprime?
Certo, ma lo scarto tra vocazione di Roma e reale funzione oggi svolta è ancora più evidente se si considera che la vocazione geografica e storica di Roma supera quella di Capitale d'Italia. Direi che Roma ha certamente tre vocazioni:
1) Roma polo tra nord e sud, l'Europa da una parte e dall'altra Medio Oriente e Africa.
Entrambe, per ragioni varie, stanno emergendo come realtà più efficaci.
2) Roma capitale, un baricentro fisico tra due Italie che stanno divergendo; un Nord dove si sta realizzando l'espansione a Sud dell'Europa del Nord, e un Sud ancora inc erca di fisionomia, e carico di sfiducia nei compagni di ricerca.
3) Roma, polo religioso in due sensi.
E' il luogo per 1.432 milioni di cittadini, il 32% dell'umanità.
E' l'unico luogo al mondo che possiede infrastrutture "cosmiche": Piazza San Pietro, le Basiliche, i Musei Vaticani. Questi luoghi di qualità universale sono isolati, raggiungerli è estremamente faticoso e non sono corredati di spazi di servizio.
L'altro polo è la religiosità dei luoghi della memoria. Il termine Archeologia è stato riducente nei confronti delle rovine; ha permesso solo il rispetto e l'approfondimento della conoscenza scientifica.
E' verificabile che questo, se pur imprescindibile atteggiamento, non è stato sufficiente ad imporre un uso adeguato dell'immenso patrimonio dell'ancestrale che a Roma si è accentrato.
Le tre vocazioni, o una e mezza, non potranno essere pensate per lungo tempo, se un macro-investimento si fossilizza in uno spazio costretto e in una tipologia scaduta.
La dimensione dell'infrastrutturale e la complessità dell'integrazione fra uomo e lavoro, fra cultura e rituale alla scala della attuale mobilità umana, sono le necessità e sfide da affrontare.
Per affrontare le necessità e le sfide occorrono strumenti. Qual'è la sua impressione sul piano quadriennale espresso nella relazione al Parlamento, dal Ministro Darida?
Non ho letto il documento, ma dalla sintesi dei giornali ho ricevuto l'impresisone che forse ci troviamo, dopo molto tempo, di fronte ad un quasi grande disegno.
Punta sulle infrastrutture territoriali e urbane, rovescia il processo di provincializzazione che ha privilegiato per troppi anni, l'attenzione alle "parti", e per di più esaltando le "parti" storicizzate. Nel documento del Ministro Darida, l'elenco delle funzioni urbane da integrare o da costruire ex novo, copre, sembra, lo spettro delle necessità emerse.
Ma le proposte di integrazione funzionale sono enucleate dall'elenco di misure infrastrutturali annunciate. In questo, si può ancora avvertire il sentore del sogno risolvente per valenza di Poli autoctoni. Il polarizzare lo spazio urbano per sequenza di varie città: per la Musica, Fiera, Spettacolo, Cultura, Congressi, ecc, rischia di promuovere la creazione di alcune macro - Cattedrali mono e bifunzionali di difficle gestione e che per la loro prestanza istituzionale espellono il fattore Lavoro dal loro intorno.
La visione di integrata, flessibile e diffusa polarità, ove lo scambio fra strutturazione organizzante e plurifunzionalità sia organicamente progettato in antitesi ai Macro-Poli, assolverebbe ritengo, più efficacemente il ruolo di Roma quale Città dei Servizi, ruolo su cui tutti, sembra, concordino.
Documento Adobe Acrobat [4.6 MB]
Note: [1] Siamo nel 1985, imperversa il disimpegno del postmodernismo; così come purtroppo la storia si ripete ancora a tutto il 2017, quando impazzano le immagini ad effetto dei rendering fotorealistici fino all'inverosimile, oppure l'high-tech autocelebrativo, contornati entrambi da verdeggianti verdure, per rendere il tutto puerilmente ecosostenibile, ovvero i soliti formalismi. [2] S.D.O. è l'acronimo di Sistema Direzionale Orientale, di Roma. [3] La parola qui stampata era "ambiente", ma mi è sembrata piuttosto una svista del tipografo, e l'ho sostituita appunto con "ambizione". [4] Qui invece la parola stampata era "lucido", ma mi è sembrata anche questa un refuso, poichè il polo cui alludeva Pellegrin è ovviamente il polo "ludico" dello Stadio Olimpico realizzato durante la dittatura fascista. [5] Sempre per i non addetti ai lavori: il secondo polo è quello dell'E.U.R. '42, l'Esposizione Universale di Roma del 1942, sempre di matrice fascista, non concretizzatasi come esposizione mondiale e completatasi urbanisticamente nel Secondo Dopoguerra (vedi ad es.: Leonardo Benevolo, "Storia dell'architettura moderna", Laterza, Bari, 1960 e successive edizioni). M.L.