Capitolo 7 - Contenuti extra

L'ARCHITETTURA SISTEMICA

Saggio di Pasquale Cascella © - 1° giugno 2023-in fieri

 

 

 

EVOLUZIONE DEI SISTEMI COSTRUTTIVI IN ITALIA

NEGLI ANNI ‘70

 

Nel dopoguerra si sviluppò una ricerca industriale per rispondere alle crescenti esigenze della stessa industrializzazione. Servivano grandi coperture ma poco costose. Si implementò quindi una ricerca volta ad ottimizzare le prestazioni con risparmio di materiale, cui seguì la realizzazione di capannoni con copertura a botte, a shed. Molte industrie misero a punto sistemi per migliorare le luci ed i pesi dei solai. A seguire iniziò la produzione di pilastri, travi e pannelli di tamponamento esterno prefabbricati in c.a. (le strutture in ferro, in Italia, all’epoca avevano costi proibitivi). I nuovi sistemi riducevano la manodopera in cantiere, affrancavano dai ritardi condizionati dalle intemperie e miglioravano decisamente la sicurezza degli operai. Successivamente, con l’avvento del precompresso ed un crescente miglioramento delle prestazioni delle autogru, nelle coperture dei capannoni industriali si diffuse l’impiego di tegoli (o copponi) in grado di coprire notevoli luci a costi contenuti. Miracoli degli industriali-artigiani italiani, capaci di inventare sistemi economici anche senza avere grandi commesse.

 

In questo contesto Pellegrin intravide la possibilità di migliorare e potenziare questo nuovo modo di costruire per impiegarlo anche nell’edilizia civile. Tutte le conoscenze ed esperienze accumulate negli anni 50-60 e la consuetudine con il cantiere - dove a 5 anni già viveva con la famiglia, giunta a Roma con altri edili e carpentieri specializzati friulani per la realizzazione del Buon Pastore di Armando Brasini - trovarono negli appalti-concorso, banditi dal Centro Studi Edilizia Sperimentale del Ministero della Pubblica Istruzione, la possibilità di elaborazione progettuale e sperimentazione al vero di nuovi sistemi di prefabbricazione a secco. Banditi la calce e l’intonaco. Sistemi costruttivi nuovi per una nuova “architettura sistemica”; nuova metodologia di progettazione per realizzare singoli edifici (le scuole) subito, e la nuova città domani, attraverso un nuovo approccio ‘tecnologico’ alla progettazione. Potenziare il mestiere del costruire era il passaggio necessario per poter costruire, “alla grande scala”, l’Habitat del futuro. Una nuova città da sviluppare ristrutturando quelle che si andavano espandendo a macchia d’olio in tutto il mondo. Questo l’immenso compito progettuale che Luigi Pellegrin si prefisse e si impose, per tutti gli anni 70-80-90, fino a quando poté, l’anno 2001.

 

Negli anni ’70 a noi studenti diceva: “mentre imparate a fare le ‘aste’ (gli esercizi pre-scrittura) dovete pensare ed allenarvi a pensare in grande, alla ‘grande scala”. Ritengo il progetto-chiave dell’evoluzione di Pellegrin - da wrightiano a maestro di architettura sistemica proiettata al futuro – quello per il concorso dell’università di Barcellona. In questo caso, la possibilità di un ambito di intervento di maggiore dimensione, rispetto alle scuole, gli dette la possibilità di fissare sui disegni il passaggio dall’edilizia estensiva e divoratrice di terra (e di relazioni tra gli abitanti) ai sistemi industrializzati per “sollevare le costruzioni da terra”. Certo c’erano già stati Le Corbusier ed altri, ma il percorso progettuale e costruttivo che indicò fu altro. Non basta il ‘piano pilotis’, occorre immaginare uno spazio abitato da organismi tra loro relazionati. Noi studenti dovevamo lavorare a questo. I più tendevano a rielaborare un suo progetto, io no. Avevo esuberanti intenti progettuali senza ancora la maturità per poterli ‘chiudere’. Così ad ogni revisione, invece di presentare l’avanzamento del progetto, ne portavo uno nuovo, o meglio ‘un nuovo intento progettuale’. Lasciava che seguissi la mia strada. Nel frattempo, durante le attese, mi accostavo al tavolo dell’allora suo, impagabile, braccio destro Carlo Cesana (con il quale in seguito divisi lo studio per sette anni) e osservavo lo svolgimento del progetto secondo la metodologia della prefabbricazione.

 

Il frutto realizzato dell’architettura sistemica di Pellegrin è stato essenzialmente nei sistemi costruttivi in prefabbricato di scuole. I tanti risultati tangibili, sparsi in tutta Italia, rappresentano un vero cambiamento tipologico, raggiunto non solo dal punto di vista costruttivo, ma anche nella composizione degli spazi e nelle relazioni tra le diverse attività dell’organismo scolastico. Tutto ciò non fu accolto, come avrebbe detto lui. Nel susseguirsi delle mode (il Post-Modern, il decostruttivismo, il ‘minimalismo’…) - fu snobbato, non trovò cittadinanza.

 

Si aggiunse il fattore ‘insegnamento di massa’, che determinò un abbassamento del livello culturale dell’insegnamento. Per studenti e docenti era meglio buttarsi su architetture meno complesse, che richiedessero minori cognizioni tecniche, minore cultura generale, minore capacità di ‘vedere nello spazio’ come diceva Pellegrin. Poi, dato che ogni epoca deve avere i suoi “totem”, si fecero largo alcuni con buone capacità artistiche, in alcuni casi anche di notevoli conoscenze tecnologiche, sempre dotati di capacità manageriali, e, dopo un’abominevole riscrittura dell’architettura moderna, si formò lo Star System. La comunicazione globalizzata portò ai grandi studi con incarichi in tutto il mondo, vere e proprie aziende che devono fatturare, con inevitabile riduzione dell’interesse per la ricerca progettuale che l’architetto dovrebbe avere verso la soluzione dei problemi del suo tempo. Mi disse un giorno D’Olivo: “Anche un maestro come Kenzo Tange, una volta che diventa la sigla di una company, non è più lo stesso”.

 

 

Pur in presenza di un grande avanzamento tecnologico, negli anni seguenti, con poche eccezioni, gli architetti si fermarono all’edificio piantato a terra, scarsamente integrato nel contesto urbanistico, dove l’originalità risiede essenzialmente nella “facciata”, come nell’ottocento, ma senza quelle regole urbanistiche che, in quell’epoca, almeno ne determinavano un contesto armonico. Facciate high tech, colorate, cangianti. Alla fine raramente oltre il parallelepipedo piantato a terra, al di là di qualche scasso o apertura sul volume. Il mondo spalancato da Buckminster Fuller, le ricerche di Pellegrin, Soleri ed altri, restarono misconosciuti ai più; i loro progetti realizzati obliati; quelli non realizzati tacciati di essere irrealizzabili.

 

Al punto di crescita demografica in cui siamo arrivati sul pianeta, al punto di compromissione della biosfera, con tutto quello che ne consegue, possiamo continuare a costruire megalopoli estensive, dove tende ad insediarsi il 90% della popolazione umana?  In quale misura possiamo contribuire a modificare il crescere della città insostenibile utilizzando l’alta tecnologia solo per i progetti ‘di rappresentanza’, del grande commercio o degli uffici finanziari?

 

 

 

COMPONENTI EDILIZI INDUSTRIALIZZATI

 

Pellegrin nel progettare sistemi prefabbricati per le scuole aveva messo a punto una metodologia progettuale per concepire i componenti della costruzione. Travi, pilastri, solai, pannelli di tamponamento, tutto montato a secco, senza operazioni “umide”. Già negli anni ’80 il prefabbricato in c.a. era oramai assemblato meccanicamente, senza getti integrativi e di unione in opera. Dai tempi di Nervi, il c.a. realizzato in stabilimento aveva raggiunto livelli di resistenza talmente elevati da rendere impensabile una trave per metà realizzata con c.a. super e l’altra metà, quella gettata in opera, con c.a. mediocre. Dal punto di vista architettonico le scuole realizzate di Pellegrin dimostravano che l’industrializzazione, in mano sapienti, non comportava più una diminuzione della qualità, tutt’altro, consentiva invece migliore qualità sia nella composizione spaziale che nei materiali impiegati.

 

Personalmente, dati gli studi fatti alla scuola di Via dei Lucchesi, cercai e ottenni incarichi di progettazione e direzione lavori di scuole. Furono per me l’unico campo dove potei applicare l’architettura sistemica quanto meno al primo stadio. Riuscii in due casi a realizzare anche veri e propri sistemi di prefabbricazione in c.a. da me progettati e realizzati con l’apporto dell’insuperabile esperienza di due geometri formatisi nel dopoguerra alla scuola della Gianese di Milano. Il caso volle che li conoscessi presentati da due diverse imprese generali che si erano aggiudicate l’appalto di due mie diverse scuole. In un caso, addirittura, la scuola andava realizzata in due distinti lotti, per cui fu realizzato un vero e proprio sistema costruttivo prefabbricato per mezza scuola! La cosa più importante che ho fatto nella mia carriera edilizia è stata proprio questa: dimostrare che l’ingegno è abbinato alla capacità di noi italiani di saper essere “sarti” costruttori (stavo per dire santi…), anche quando l’economia direbbe che è impensabile realizzare un nuovo sistema - composto da pilastri con piccole mensole, travi, travi canale portanti, solai e pannelli di tamponatura esterna a superficie finita con graniglia di pietra gialla - per mezza scuola. Fu possibile grazie al compianto amico fraterno Mario Peruzzotti da Gallarate e grazie all’amico Luciano Redaelli da Milano, trapiantato a Caserta dove ha sede la sua azienda. Grazie Mario, grazie Luciano, che vi siete voluti cimentare con me nella realizzazione di queste piccole, quanto emblematiche dimostrazioni delle possibilità dell’architettura sistemica, seppur alla piccola scala, a quella in cui si fanno le aste (come un tempo nella pre-scrittura). Maestri del calcestruzzo prefabbricato e del disegno meccanico (a mano, i computer all’epoca erano ancora lontani), voi che avete reso possibile la realizzazione di queste scuole, le quali gli studenti di ingegneria strutturale di Napoli, in visita allo stabilimento, non mancano di visionare attraverso i disegni e le foto appesi negli uffici aziendali. Abbiamo dimostrato la possibilità anche economica del passaggio dal tradizionale al prefabbricato (in c.a. in quanto il ferro era decisamente più costoso in Italia, al contrario dell’Inghilterra e di gran parte del mondo). Passaggio che richiede un cambio di metodologia progettuale, dove non sono più possibili varianti in corso d’opera delle strutture e dell’involucro, e che comporta un percorso di progettazione il quale inizia, come qualsiasi progetto, dall’ideazione attraverso schizzi e disegni preliminari - che però già contengono la concezione costruttiva (altro che decostruttivismo!) - cui segue l’elaborazione esecutiva architettonica, e poi il ‘progetto costruttivo’ (di competenza dell’azienda che realizza i prefabbricati, ma sempre seguito dall’architetto in tutto il suo sviluppo). Definiti gli abachi dei diversi componenti e i disegni di assemblaggio, vengono realizzati i casseri. Segue la produzione in stabilimento e poi in cantiere dove, tempo una settimana, due, per il montaggio, e appare l’intera struttura e l’intero involucro, praticamente anche con la finitura finale.

 

Negli anni 80-90, mentre ero preso dalla volontà di ‘materializzare’ qualcosa di quanto avevo appreso in Via dei Lucchesi, nell’insegnamento universitario veniva sostanzialmente vietata questa metodologia di progettazione. Un architetto del Comune di Roma, guardando il mio progetto di un asilo prefabbricato (poi realizzato) mi disse “a mia figlia che studia architettura i professori vietano di usare una qualsivoglia base modulare di costruzione del progetto, non so perché… ”. Perché per i critici ufficiali di quegli anni il c.a. doveva essere quel materiale che contrastava con gli altri materiali ‘lisci’ (metalli, vetri), quindi decisamente un faccia vista ‘rustico’, una questione meramente estetica (poi, come abbiamo visto, c’è stato chi lo ha voluto liscio ma gettato in opera). L’architettura doveva conformarsi al progetto visto dall’esterno (il contrario dell’architettura organica, la cui prima e forse unica regola, è sviluppare il progetto dall’interno verso l’esterno), quindi ampio utilizzo di renders il più possibile lontani da geometrie elementari, come se questo bastasse per definire un progetto complesso.

 

 

 

NECESSITÀ DI SISTEMI COSTRUTTIVI INDUSTRIALIZZATI

 

Pur nell’epoca dell’informatica, delle esplorazioni spaziali e dell’intelligenza artificiale, nell’edilizia corrente, a parte poche eccezioni in cui qualche parte della costruzione è industrializzata (ad esempio le facciate), per il resto, per quanto riguarda strutture e involucro, si continua a costruire come nell’antichità più il cemento armato in opera. Ma il sistema costruttivo tradizionale, al di fuori di interventi su edifici esistenti, è oramai insostenibile per i seguenti motivi.

 

In presenza di fenomeni globali che investono la sicurezza dei territori e delle aree urbanizzate quali inquinamento, cambiamenti climatici, deforestazione, desertificazione, alluvioni, tsunami e tenuto conto dell’esplosione demografica nei paesi in via di sviluppo, non si può non considerare la necessità di doversi attrezzare culturalmente e tecnicamente, allo scopo di costruire, velocemente e in qualità, quanto necessario per implementare e soprattutto rinnovare/ristrutturare l’esistente.

La diffusione della prefabbricazione e dell’industrializzazione si impongono per carenza di manodopera qualificata, per migliorare la sicurezza nel cantiere, per ridurre i consumi di materiale ottimizzandone le prestazioni, per la possibilità di dimezzare i tempi di esecuzione lavorando in parallelo, produttivamente “off-site” e assemblando “in-site”.

 

 

 

SUPER HIGH TECH E ARCHITETTURA SISTEMICA IN VERTICALE

 

Mentre la critica si occupava, come si occupa tuttora, della celebrazione della moda di turno (disconoscendo magari quella incensata fino a poco prima), fortunatamente c’è stato chi ha realizzato delle anteprime del costruire contemporaneo. Già negli anni 78-86, Rogers, nei Lloyd’s di Londra, aveva realizzato un atrio, alto 60 metri su un’altezza complessiva della costruzione di 88 metri, illuminato naturalmente attraverso una copertura in vetro. Modulare in pianta, ogni piano può essere modificato aggiungendo o rimuovendo tramezzi e pareti. Tra le tante innovazioni tecnologiche e strutturali anche dei super-pilastri (per resistenza e sistema di assemblaggio), migliori delle colonne di grandi dimensioni già note. Quanti critici se ne sono accorti?. E negli anni 79-85 Foster, nella sede centrale della HSBC-Hong Kong and Shanghai Banking Corporation alta 180 metri, attraverso l’impiego delle tecnologie più avanzate, aveva offerto una dimostrazione tangibile del risultato costruttivo e spaziale dell’applicazione di alcuni principi inderogabili dell’architettura moderna e contemporanea, ovvero:

 

- cercare un’integrazione con la città;

- ottenere, nel tempo, il massimo di flessibilità funzionale degli spazi interni;

- moltiplicare la varietà degli spazi;

- privilegiare la luce naturale;

- prefabbricare i componenti costruttivi ed ottimizzare i tempi di esecuzione.

 

Integrazione con la città. Il piano terra e il primo piano del grattacielo della HSBC sono adibiti a piazza pubblica coperta, l’atrio della banca è ai livelli superiori.

Massimo di flessibilità funzionale degli spazi interni. Il raggiungimento di questo obiettivo passa per due fondamenti dell’architettura moderna e contemporanea: ottimizzazione delle strutture e modularità del progetto. Questi due fondamenti, che i cosiddetti decostruttivisti hanno voluto abolire…( quanto è più facile esercitarsi in plastici senza vincoli funzionali e strutturali!), in questo progetto raggiungono una evidenza massima. A questo scopo Foster adotta una struttura in acciaio costituita da otto piloni a traliccio, ciascuno costituito da quattro tubi collegati tra loro, che portano cinque travi reticolari metalliche, dell’altezza di due piani ciascuna, che sorreggono, appesi, cinque volumi ciascuno costituito da solai in numero variabile da 5 a 8. A parte i vincoli costituiti dalle strutture portanti primarie - peraltro ridotti al minimo anche perché i solai sono appesi a tiranti metallici molto esili - tutto può essere modificato in futuro. Le scale mobili, gli ascensori e i moduli prefabbricati dei servizi potranno essere sostituiti o spostati. Gli stessi solai potranno essere soppressi o modificati. Anche una futura diversa suddivisione degli uffici non necessiterà altro che di parziali smontaggi e rimontaggi di pareti divisorie.

Moltiplicare la varietà degli spazi. Interi piani adibiti ad uffici aperti (sempre con affaccio verso i vuoti interni e verso l’esterno), terrazze in corrispondenza dei due piani che contengono le strutture primarie trasversali, il grande vuoto dell’atrio principale alto 52 metri, tutto concorre a questa varietà spaziale. L’interno nel suo complesso: una vera “passeggiata nello spazio”.

Privilegiare la luce naturale. Al contrario della maggioranza dei grattacieli, la HKSB è studiata per permettere la diffusione della luce naturale quasi ovunque. Le sezioni generali, longitudinale e trasversale, mostrano doppie altezze e vuoti interni che, abbinati alle grandi vetrate, fanno comprendere come la luce naturale raggiunga la maggior parte degli uffici. Un sistema di specchi, posto al livello superiore del grande atrio, riflette i raggi solari nella grande hall.

Prefabbricare i componenti costruttivi ed ottimizzare i tempi di esecuzione. A parte le fondazioni, la costruzione in sito è consistita, essenzialmente, nell’assemblaggio di componenti prefabbricati provenienti, a volte, anche da paesi molto distanti come Gran Bretagna, Germania e USA.

 

In questa costruzione è evidente che il costo non è stato certo l’unico elemento considerato per la scelta di materiali e fornitori. Siamo in presenza di un’opera super high tech che per livelli di precisione e controllo è prossima alle procedure praticate per le costruzioni di impianti nucleari o nell’aeronautica; ma le basi metodologico-progettuali e costruttive sono le stesse anche in piccole costruzioni prefabbricate. Quello che serve, alla piccola come alla grande scala, è una formazione culturale adeguata che consenta all’architetto un approccio costruttivo attraverso componenti anziché attraverso la messa in opera di mattoni, calce, strutture gettate in opera. Formazione quindi in direzione di un’architettura sistemica, proprio quella pressoché negata nelle università, dove prevale l’emulazione di modelli formali fini a se stessi, ristretti all’ambito volubile delle mode. Al contrario di quanto si studiava fino agli anni ’70, ovvero i progetti di valenza architettonica e costruttiva non effimera ma epocale.

 

Pur in scala minore, questo progetto indica le basi progettuali per arrivare a costruire, ad esempio, un’Arcologia tipo quella disegnata da Soleri per Tokio nell’ambito di una ricerca promossa, nel 1994, da più corporazioni e dallo stesso governo giapponese alla ricerca di soluzioni per la città del XXI secolo. Ma la distanza tra il realizzato ad Hong Kong e il proposto a Tokio è nelle attività contenute. Finché saranno solo uffici non esisterà ancora il rinnovamento urbanistico che serve se non nell’attacco a terra. Nella torre alta 1.000 metri di Soleri le attività sono anche residenziali, commerciali, culturali, collettive. Un’intera parte di città si trasferisce in altezza per realizzare il verde al posto di un quartiere che si estende, estremamente piatto, per 360 ha.

 

 

CONTINUA...

 

 

 

 

 

 

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ACKNOWLEDGMENTS

Even the longest journey begins with a first step! Systemic Habitats is on line since the 18th of May 2012. This website was created to publish online my ebook "Towards another habitat" on the contemporary architecture and urbanism. Later many other contents were added. For their direct or indirect contribution to its realisation strarting from 2012, we would like to thank: Roberto Vacca, Marco Pizzuti, Fiorenzo and Raffaella Zampieri, Antonella Todeschini, All the Amici di Marco Todeschini, Ecaterina Bagrin, Stefania Ciocchetti, Marcello Leonardi, Joseph Davidovits, Frédéric Davidovits, Rossella Sinisi, Pasquale Cascella, Carlo Cesana, Filippo Schiavetti Arcangeli, Laura Pane, Antonio Montemiglio, Patrizia Piras, Bruno Nicola Rapisarda, Ruberto Ruberti, Marco Cicconcelli, Ezio Prato, Sveva Labriola, Rosario Francalanza, Giacinto Sabellotti, All the Amici di Gigi, Ruth and Ricky Meghiddo, Natalie Edwards, Rafael Schmitd, Nicola Romano, Sergio Bianchi, Cesare Rocchi, Henri Bertand, Philippe Salgarolo, Paolo Piva detto il Pivapao, Norbert Trenkle, Gaetano Giuseppe Magro, Carlo Blangiforti, Mario Ludovico, Riccardo Viola, Giulio Peruzzi, Ahmed Elgazzar, and last but not least Warren Teitz.  M.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

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