Capitolo 4 - Dall'architettura organica ai nostri giorni

CHE COSA HAI DETTO?

...ARCHITETTURA ORGANICA?

di Michele Leonardi © - 22 settembre 2012

 

 

“WHAT IS ARCHITECTURE?

 

What is architecture anyway?

Is it the vast collection of the various buildings which have been built to please the varying taste of the various lords of mankind?  

I think not.  No, I know that architecture is life; or at least it is life itself taking form and therefore it is the truest record of life as it was lived in the world yesterday, as it is lived today or ever will be lived.  

So architecture I know to be a Great Spirit.  

It can never be something which consist of the buildings which have been built by man on earth ... mostly a rubbish heap or soon to be one.  

Architecture is that great living creative spirit which from generation to generation, from age to age, proceeds, persists, creates, according to the nature of man, and his circumstances as they change.

That is really architecture.

 

Frank Lloyd Wright”

 

Questo brano del pensiero wrightiano me lo fece fotocopiare una volta proprio Luigi Pellegrin a Studio da lui, e poi mi disse: tienilo e leggilo.  Pensavo gli servisse per qualcosa, ma era destinato a me, si era accorto che ero avido di letture.

Mi sono sempre chiesto, e ancora me lo chiedo, che cosa sia mai questa architettura organica.

Non ho dubbi su di essa, nel senso che è l’unica architettura che mi sta a cuore. Questione di empatia, e di istinto.

Non ha una forma ben definita, non appartiene ad una sola persona, né ad un solo architetto e nemmeno ad un solo popolo, quando parliamo di architettura senza architetti, quella delle culture tradizionali di ogni dove.  Chiunque ne sia l'artefice, nemmeno il tempo la contiene.

La riconosco nella Sede dei Lloyd's of London di Rogers, nella Fabbrica di Ceramiche Solimene a Vietri sul Mare di Soleri,  in una Cattedrale gotica francese del XII secolo, ne ammiro i resti in quella che fu la Cittadella di Adriano a Tivoli, o quando sono all’interno del Pantheon a Roma, e mi fido, pure se non le ho mai viste di persona, delle prairies houses di Wright, guardo le loro foto e i disegni e mi dico: più organiche di cosi!

Sì, Wright enunciò i suoi noti principi dell’architettura organica, e forse dovrei documentarmi di più e saperne di più sul suo vero capostipite, Louis Sullivan, come fece a suo tempo Pellegrin.  Ma preferisco continuare a vederla a modo mio l’architettura organica, così come, riverberata e riflessa, mi è giunta attraverso i mille indizi lasciati dall’architetto Luigi Pellegrin:  professionista iperattivo, ricercatore, e docente universitario, ma non cattedratico.  In una sola parola:  maestro.  E persino sciamano, se fossimo vissuti in questi nostri stessi luoghi solo 8000 anni fa, e, non certo per sminuirne l’opera, direi pure che Egli era un perfetto artigiano.


Perché Wright insisteva tanto sulla architettura vivente?

Una persona qualsiasi non addetta ai lavori, sentendo dire cose di questo tipo, ed in particolare parole come “organica”, potrebbe pensare che sono tutte chiacchere ed argomentazioni inconsistenti, oppure che si tratta di un linguaggio di nicchia specialistico.

Niente di tutto questo, però: come faccio io ad affermare che il Pantheon di Adriano è architettura organica, mentre la Basilica di San Pietro no?  Oppure sì, anche la Fabbrica di S. Pietro lo è, oppure ancora un'altra possibilità: S. Pietro è un’architettura un po’ meno organica di quella del Pantheon.

Ma può mai esistere un’architettura un po’ organica?  No, perché sarebbe come dire che esiste un qualcosa di un po' vivo! Una donna incinta un po' incinta, un figlio un po' figlio, marito e moglie un poco sposati!

L’unica cosa organica che trovo in S. Pietro è la sua stratificazione storica e l’intero complesso, l’insieme delle relazioni dato dalla grande piazza con l'accogliente Colonnato del Bernini, prima ancora il "crudele" asse di Via della Conciliazione nato dalla soppressione della Spina del Borgo, e poi il terribile impianto cruciforme e la retorica pomposa anonima facciata del Maderno  (forse mi sbaglio e non è colpa sua, vado a memoria), fino ad arrivare alla Cupola di Michelangelo Buonarroti rinforzata dal Fontana, che mi fa venire in mente solo il vero progetto michelangiolesco originario a pianta centrale che questa basilica avrebbe dovuto avere secondo le intenzioni del suo ideatore e di chi lo aveva preceduto con altri progetti da egli ripresi e trasformati, poiché in realtà fu un progetto "collettivo".

Però all’interno di tanta noia dovuta alla navata allungata del Maderno ci viene incontro il Baldacchino del Borromini e del Bernini, che confondendoci le idee ci conforta e per un attimo ci fa dimenticare la maderniana madornale opera longa.

 

Ora, tornando al Pantheon, per onestà intellettuale dovremo chiederci: dunque, perché quest’ultimo è sicuramente “organico”?  Solo per il grande spazio sferico in esso racchiuso?  Per via dell’oculos, il buco nella sua cupola che lo caratterizza e lo rende unico al mondo?  Perché la sua sezione è in parte simile ad un occhio con tanto di pupilla?  Sarebbe riduttivo pensare questo, pure se la cosa è evidente.  Non è possibile che Adriano si fosse abbandonato ad una simile banalità di copiare alla lettera la natura. E’ solo una coincidenza e una vaga similitudine. C’è dell’altro.

Il Pantheon è architettura organica perché ti mette al centro dell’universo.

Chiunque entri nel Pantheon è costretto ad alzare la testa al cielo, è obbligato a relazionarsi con il cosmo sopra di lui, a sentirsi esposto alla luce dopo il buio del porticato, fosse anche la sola luce delle stelle, a non avere altre alternative perché altra scelta non c’è:  non c’è nessuna finestra che ti permetta di fuggire altrove, se non la porta bimillenaria che hai prima attraversato.

Non puoi essere ambiguo né ondivago nel Pantheon, non puoi nemmeno dire: mi piace un po’.  Non c’è una via di mezzo, perché o ci stai o te ne vai come un turista frettoloso con percorso a tappe obbligate, ansioso solo di scattare la sua fotina ricordo.

Qui accade che o gli appartieni ed esso ti appartiene – questo luogo, questo spazio, questa architettura vivente -, oppure succede che è meglio se non ci torni mai più, perché non ci hai capito ancora un cactus della vita.

 

In conclusione, che cos’è questa architettura organica?


Una volta Pellegrin appuntò su un mio libro che avevo appena comprato le iniziali delle seguenti parole, il libro era "La Città Vivente" di Frank Lloyd Wright:

NATURA  DEMOCRAZIA  ETICA-MATERIA.

Mentre le scriveva su un pezzetto di carta volante mi disse che questa era stata secondo lui la grande intuizione di Wright, cioè stabilire una relazione tra queste tre cose.

Penso che Pellegrin volesse dire questo riguardo Wright, ed è questo il mio punto di vista sull’architettura organica:  stabilire un legame indissolubile ma dinamico tra natura e società, tra natura e individuo, e come?  Nobilitando l’umile versatile materia attraverso l’architettura. L'uso che si fa della materia, è una questione di Etica.  Non ci sono scuse per giustificare il vilipendio della materia e il suo spreco.

 

 

Torniamo quindi di nuovo a chiederci che cosa mai sia questa benedetta architettura organica.

E pure a chiederci in base a che cosa si può credere che l’architettura di Pellegrin sia anch’essa organica.

Per esclusione cominciamo a vedere che un’architettura qualsiasi non si può ritenere organica o vivente solo perché dentro ci sono delle persone.  Difatti, appena le persone non ci sono più, all’interno di essa, quella architettura diventerebbe automaticamente un’architettura morta, un guscio vuoto come quello di una conchiglia priva del suo legittimo proprietario ed inquilino. 

Allora una architettura è organica semplicemente perché i suoi componenti attivano il massimo numero di relazioni tra le parti, cioè tra i suoi componenti, quelli ospitati e accolti ma pure i componenti stessi, dalla scala fisica fino ad attivare l’intangibile:  lo spirito degli esseri umani, qualsiasi attività in essa vi svolgano, pratica, edonistica, spirituale, o distratti da altre cose.

Queste parti in gioco sono in primo luogo le persone e la comunità – di qui la centralità dell’uomo secondo il principio di Sullivan che la forma segue la funzione -,  ed in secondo luogo il legame che questa architettura stabilisce con il luogo su cui essa sorge, e quindi con la Terra.

Ma con questa descrizione dell’architettura organica come fenomeno relazionale e in questo quindi organicistico nell’accezione che ne dà il filosofo e matematico Alfred North Whitehead, ridurremo la stessa architettura organica unicamente ad una questione di processi dinamici, cioè processi interattivi tra chi viene accolto da quell’architettura, e l’architettura che così funge da catalizzatore di processi e che ci fornisce una relazione con il contesto, cioè con il luogo e il suo territorio, rendendone palese il genius loci.

Tutte queste cose sono vere e verificabili caso per caso, con differenti declinazioni per ciascuna architettura, però non sono l’essenza dell’architettura organica come la intendeva Luigi Pellegrin.  Perché ?  Perché Pellegrin intendeva che l’architettura organica dovesse essere come un utero, proprio l’utero materno, quello che ci ha accolto per primo al mondo prima ancora di nascere.  In realtà, eravamo nati appunto prima.

E’ questo quindi il primordiale che Egli ha sempre cercato di richiamare.  E secondo me ci è pure sempre riuscito.  Ed è questa la spontaneità di cui parlava Wright. Un’architettura deve dichiarare la propria appartenenza al luogo su cui sorge, deve sembrare che sia nata spontaneamente proprio lì, e farci sentire sempre a casa nostra.

Non trattenerci in una trappola, ma indurci ad entrare ed uscire come ci pare, senza catene né inutili paure, indurci ad esplorare l’intorno, consentire l’incontro tra le persone.

 

Diceva Pellegrin, o meglio lo sentii dire questo una sola volta, che l’architettura rappresenta il massimo livello di cultura raggiunto da una determinata civiltà in una determinata epoca.

Sembra un’affermazione vagamente banale e tautologica, ma nasconde questa verità. L’architetto, sia pure esso un rivoluzionario creatore, non può fare altro che ciò che quella civiltà gli permette.

E tutti quanti noi non possiamo fare altro che quello che questa società ci permette di fare. Se noi ci lanciamo in avanti, anche di poco, e la società rimane indietro, a nulla serviranno tutti i nostri sforzi di cambiare in meglio la prassi edilizia dei nostri tempi, perché quella società non è pronta per quell'evento.

Louis Sullivan come è noto ebbe a patire proprio questo negli ultimi anni della sua vita, ma anche Wright non poté realizzare esattamente tutto quello che voleva realizzare.

Perché accennare a questo fatto?  Dirò solo che molti progetti di Pellegrin avrebbero potuto cambiare il corso dell’architettura contemporanea, almeno in Italia, uno tra tutti il suo progetto per il riuso del Lingotto FIAT a Torino, ma anche tantissimi altri suoi lavori dinamici ed energici come lui e chi lavorava con lui. Non lo dico per partigianeria, ma lo dico con distacco critico estraniandomi per un momento dalla mia vera e propria idolatria nei confronti delle opere dello Studio Pellegrin.  

E’ vero che tantissimi progetti non si realizzano, ma quelli erano decisamente al passo con i tempi e necessari.  Avrebbero aperto la strada ad un altro modo di fare architettura.

Non voglio così commiserare l’Architetto – Luigi Pellegrin naturalmente -, perché quando era ancora relativamente giovane aveva già all'attivo un elevato ed invidiabile numero di realizzazioni, brevetti di prefabbricazione e pure una invidiabile carriera ed attività di docente universitario, come Prof. Dott. Arch. Luigi Pellegrin, visiting professor in diverse università americane, e altro ancora.

Non ho nemmeno l'intenzione di tracciare qui una breve biografia di Pellegrin, e nemmeno di ridurre l’architettura organica ad un fatto meccanicistico dimostrabile scientificamente.

Tuttavia si tenga presente che se la attuale civiltà umana - chissà quante ce ne sono state prima di questa nostra! -, dovesse non autodistruggersi e non regredire in quanto a conoscenza e saggezza, cosa che auspicava nel Trecento un certo Dante, prima o poi si arriverà a capire che cos’è la vita, e allora sono sicuro che qualcuno si accorgerà quale è il filo conduttore che dopo una, due generazioni, da Louis Sullivan in America ci porta dalla parte opposta dell'Atlantico all’architettura di Luigi Pellegrin.

 

Certamente esiste anche un altro aspetto cruciale che denota il fare architettura organica.

Questo consiste, per quanto ho potuto assorbire osmoticamente dal Maestro, nel trarre ispirazione dalla natura.  Cosa che faceva anche Wright – su Sullivan confesso che ne so poco -, e che hanno sempre fatto gli uomini e le donne di tutti i tempi, le culture di tutti i tempi.  La natura ci circonda, la natura siamo noi stessi, al di là dell'illusione Ottocentesca che vi possa essere una separazione tra umanità e natura, con il primato positivistico della prima sulla seconda.  

Ciononostante non si trattava per Pellegrin di copiare pedissequamente la natura. Personalmente mi fanno pena quelle genti che, cercando di applicarle all'architettura, si lambiccano il cervello con la “sezione aurea”, con le scale logaritmiche, con le spirali, con i rapporti matematici, con gli Insiemi di Julia, con la matematica frattale di Mandelbrot, per altro tutte entità con una ragion propria d’essere e ben altre applicazioni valide in altri settori dello scibile. Applicare tutto questo pedissequamente all’architettura, sia essa una facciata, che una pianta o persino lo spazio circoscritto dalle sue membrane, è una grande perdita di tempo.

Non ci vuole una scienza per strutturare un'architettura con il principio dell’autosomiglianza (… se pensiamo ai frattali e dintorni per esempio).  Farlo per puro desiderio di forma è ugualmente altro tempo perso oziosamente.  Un conto è ispirarsi alla natura, un conto è appunto prendere una conchiglia e fare puerilmente una casa a forma di conchiglia:  roba da parco dei divertimenti o da torta nunziale!  Qualcuno potrebbe ritenere che all'alba del XXI Secolo queste cose non le faccia più nessuno. Magari: il vizio certa gente non lo perde mai, neanche dopo la sfioritura del posticcio appiccicaticcio schifoso post modern.  Andatevi a vedere certi grattacieli "minori", più ordinari di Dubai: è un abominevole pieno di conformismo, edifici che se ne infischiano di tutto, del clima, del luogo, dello spreco di energia.  Al contrario guardiamo ai nuovi edifici high-tech riciclati come architettura sostenibile:  tipologie sclerotiche plurisecolari astrutturate, baracche di lusso, opprimenti curtain-wall che non permettono mai alle persone di aprire una sola finestra, ragnetti di acciaio inox distribuiti come il formaggio sopra un piatto di pasta!  Come per il post modern, tra dieci, venti anni tutte queste costruzioni disorganiche sembreranno obsolete, inutili, e più che mai da rottamare. Persino chiamarle architetture dell'effimero sarebbe un insulto all'intelligenza umana, perché non sono nemmeno tali.

 

Mi ricordo la prima volta che conobbi Luigi Pellegrin, dapprima come docente professore universitario prima ancora che come architetto.

Il luogo era un’aula della sede della Facoltà di Architettura di Roma di Piazza Fontanella Borghese. Ai miei tempi c'erano tre sedi distaccate di chilometri, e bisognava saltare da una all'altra, da Via Gramsci ai Parioli, a quella sulla Via Cassia presso Ponte Milvio, fino appunto al Campo Marzio, Piazza Borghese.  Quella che stava per iniziare era la prima lezione di quel ciclo annuale dei suoi corsi accademici.  In particolare in quell'anno insegnava "Scenografia", per il cinema, teatro, la televisione ed effimero, ossia allestimenti per spettacoli di massa, nonché  "Progettazione Architettonica II".

Aula spaziosa, finestre per giganti con l'immancabile luce romana spaccasassi, io ero arrivato in anticipo, e pure Pellegrin.  Quando lo vidi mi dissi:  ammappa! questo deve essere un vero professore di architettura, forse pure… un vero architetto!

La grande aula dai soffitti alti era vuota, all’inizio c’eravamo solo io e lui seduti a qualche metro di distanza circa l'uno dall'altro. Io avevo portato con me alcuni miei lavori e già stavo cercando di carpirgli qualche parere.

Niente, dopo un suo impercettibile accenno di annuizione ai miei lavori, forse di consenso,  continuava con il suo impeccabile foulard al collo a fissare con aria assorta in una direzione imperscrutabile.  La sua aria denotava una propria spiccata personalità.

Nelle lezioni successive e già a partire da quella mi resi conto che non era ciò che si definisce solitamente un personaggio, appunto una persona con un carattere proprio ben evidente, ma era invece tutto vero e spontaneo!   Tra Luigi Pellegrin uomo, professore ed architetto, non c’era nessuna soluzione di continuità, nessuna cesura, era una continua eruzione di idee, pensieri, disegni, progetti, insomma era molto "peggio" di quanto potessi pensare: un genio ed un infaticabile lavoratore.  Ma anche al di là di qualche sua perdonabilissima titanica arrabbiatura, cioè di un apparentemente iniquo fulmine da Egli scagliato ogni tanto verso il malcapitato di turno, era un amico, nel senso che per quanto io lo possa aver conosciuto all’università seguendo le sue lezioni e revisioni, e poi nel suo studio-laboratorio di Via di Lucchesi lavorandovi come collaboratore, non lo ho mai visto trattare dall’alto in basso nessuno.

Ritengo che Pellegrin abbia sempre dato molto agli altri, e quindi giustamente pretendeva molto, in particolare credo che Egli abbia incessantemente cercato di trasmette a tutti – con grandissimo impegno umano e professionale -, il mestiere di architetto.  E tutto questo con il fare più che con il teorizzare e pontificare. 

Aveva una incredibile capacità di rinnovarsi, di rimettere sè stesso e di rimettere tutto in discussione.  Pellegrin disegnava in prima persona, non si limitava a parlare per poi lavarsene le mani.  Sia il suo studio che la sua casa traboccavano di libri e pubblicazioni di ogni genere, ma mai che Egli ci abbia imposto di leggere o studiare qualche ottusa e pedante dottrina, né come studenti, né come progettisti.  Per esempio di Wright, di Sullivan, o di Le Corbusier, non ce ne ha mai parlato in termini dogmatici. Anzi ci diceva più o meno questo  (in realtà lo sentii dire questo una sola volta, giacché "se ti ripeti sei uno …"):  leggete libri di tutti i generi, non perdete tempo con i libri di architettura, fate come faccio io.  E ci portò una volta a me, l’architetto Marco D’Arpino ed altri a fare compere in una libreria.  “Guarda questo, ti interessa? E’ tuo.” Oppure: "prendete dei libri che vi incuriosiscono".  Ovviamente le sue erano parole da non prendere cretinescamente alla lettera. Difatti anche riguardo a questa storia dei libri non-di-architettura, c’è da dire che il suo studio traboccava pure di libri di architettura, persino alcuni scritti in ostiche lingue straniere! … oltre a plastici, disegni, ed altre meraviglie architettoniche e non, lì presenti dappertutto.

 

Ma fu alla mia seconda lezione alla Facoltà di Fontanella Borghese tenuta da Luigi Pellegrin che mi prese un colpo.  Egli si presentò con un ramo di pino – precisamente di un pinus pinea, con tanto di verde fogliame coniforme.  Tenendolo in mano alla base lo alzò come una spada e poi cominciò a rotearlo quasi fosse un satellite per farlo vedere sotto vari lati,  e così facendo prese a parlare di quelle cose interessanti che avresti sempre voluto sentire all’università ma che fino ad allora non avevi mai sentito:  dov’è l’asse di simmetria, secondo quale legge è cresciuto questo ramo, in natura la ripetizione c’è ma non è visibile, non è immediatamente percepibile, insomma un flusso ininterrotto e poi interrotto da pause silenziose siderali, con una ritmica appropriata ad un profeta vaticinante, o al migliore degli oratori, che ti portavano dentro una realtà da te inimmaginata dell’architettura.

 

Allora mi dissi subito, istantaneamente:  è Lui, è l’Architetto, è il Maestro.

 

Qui non c’è solo da studiare o lavorare, qui c’è da imparare qualcosa: qui c'è da vivere finalmente.

 

 

 

 

 

 

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ACKNOWLEDGMENTS

Even the longest journey begins with a first step! Systemic Habitats is on line since the 18th of May 2012. This website was created to publish online my ebook "Towards a different habitat" on the contemporary architecture and urbanism. Later many other contents were added. For their direct or indirect contribution to its realisation strarting from 2012, we would like to thank: Roberto Vacca, Marco Pizzuti, Fiorenzo and Raffaella Zampieri, Antonella Todeschini, All the Amici di Marco Todeschini, Ecaterina Bagrin, Stefania Ciocchetti, Marcello Leonardi, Joseph Davidovits, Frédéric Davidovits, Rossella Sinisi, Pasquale Cascella, Carlo Cesana, Filippo Schiavetti Arcangeli, Laura Pane, Antonio Montemiglio, Patrizia Piras, Bruno Nicola Rapisarda, Ruberto Ruberti, Marco Cicconcelli, Ezio Prato, Sveva Labriola, Rosario Francalanza, Giacinto Sabellotti, All the Amici di Gigi, Ruth and Ricky Meghiddo, Natalie Edwards, Rafael Schmitd, Nicola Romano, Sergio Bianchi, Cesare Rocchi, Henri Bertand, Philippe Salgarolo, Paolo Piva detto il Pivapao, Norbert Trenkle, Antonietta Toscano, Gaetano Giuseppe Magro, Carlo Blangiforti, Mario Ludovico, Riccardo Viola, Giulio Peruzzi, Ahmed Elgazzar, Warren Teitz, and last but not least Lena Kudryavtseva.  M.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

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