Capitolo 1 - Testimonianze
IO E PELLEGRIN
di Giacinto Sabellotti © - 4 febbraio 2016
Sono un dottore commercialista che ha avuto il piacere di scambiare una lunga e amabile chiacchierata con l’Arch. Luigi Pellegrin due o tre mesi prima della sua prematura scomparsa. Che cosa avranno avuto da dirsi un architetto anziano e malato e un commercialista giovane e rampante nel 2001?
L’occasione fu una banalissima infiltrazione d’acqua nel suo attico romano di Via della Casetta Mattei n. 206 di cui non ricordo bene i particolari (e non potrebbe essere altrimenti essendo totalmente irrilevanti), all’interno di una palazzina progettata dallo stesso alla fine degli anni cinquanta.
La premessa è che i miei genitori, appena sposati, acquistarono un appartamento nella medesima palazzina appena edificata ed io avevo vissuto con loro i primi 29 anni della mia vita. Non solo, sposatomi a mia volta mi trasferii in un altro appartamento della medesima palazzina e subito dopo aprii il mio studio commercialista al piano di sopra. In tutti questi anni mi era stato raccontato di come l’architetto che aveva ideato il nostro palazzo, divenuto poi professore universitario, avesse sempre mantenuto la proprietà dell’attico, anche se ci veniva saltuariamente e io, un po’ influenzato dall’ammirazione dei miei genitori, un po’ affascinato dal suo incedere tranquillo ed elegante, lo vedevo come una persona molto distaccata seppur formalmente cordiale. Tuttavia, a metà degli anni ottanta, un mio amico con cui frequentavo una palestra di judo, seduto con me al bar situato nella piazza antistante la mia palazzina ed all’epoca studente di architettura, riconobbe l’edificio come opera di Pellegrin e, pur non essendo stato un suo allievo, me ne parlò come del terrore degli studenti, ai quali venivano puntualmente stracciate le tavole frutto di lungo lavoro con annessi pesanti insulti, per poi magari richiamarli al telefono ed invitarli a cena. Non avevo modo di dubitare di quanto mi veniva raccontato, ma una simile lunaticità strideva con l’immagine che mi ero fatto di Pellegrin. Circa quindici anni dopo, la mia conoscenza di Pellegrin si limitava ad una serie trentennale di incontri “buongiorno e buonasera” nell’androne della palazzina o di veloci scambi in acensore sui “costumi moderni” (con riferimento a qualche particolarità nell’abbigliamento o nell’acconciatura) e poco più.
In occasione dell’incontro del 2001 invece volle iniziare una chiacchierata, incuriosito da questa mia particolare condizione di chi aveva sempre vissuto e lavorato nel medesimo palazzo. Mi chiese come mai non avessi sentito la necessità di fuggire e io gli risposi che si fugge da una situazione di disagio, mentre io mi ero sempre trovato benissimo, in particolare avendo avuto la fortuna di avere vicini i miei nonni materni nella mia fanciullezza e nella mia adolescenza, esperienza che volli replicare consciamente a favore dei miei figli decidendo di rimanere vicino ai miei genitori. Anche l’apertura del mio studio commercialista avvenuta a metà degli anni novanta fu una scelta precisa e lungimirante, nel senso che tendeva ad eliminare i disagi e i tempi morti causati da una mobilità già allora pesantissima, confidando nel contempo in uno sviluppo tecnologico che avrebbe eliminato la necessità di depositare fisicamente bilanci e dichiarazioni fiscali nei templi istituzionali raggruppati nel quartiere Prati (cosa che avvenne molto presto nel 1998). Ascoltò con attenzione, mi disse di apprezzare i miei toni entusiastici sulle mie scelte di vita che intendevano perseguire un mio personale equilibrio e quindi ad innalzare la qualità della vita mia e dei miei cari. Aggiunse che il clan familiare è la matrice della società, una grande risorsa dataci dalla natura che tuttavia non sapevamo più organizzare, che l’umanità intera avrebbe dovuto essere scomposta e ristrutturata partendo da tali unità di base. Mi disse che l’architettura doveva aiutare l’uomo in questa direzione, doveva cioè avere una funzione sociale, e mi chiese se sapessi cosa fosse l’architettura organica. Risposi di no, anzi, gli dissi che avrei avuto difficoltà a definire proprio l’architettura e lui, ridendo, mi disse che il modo è pieno di architetti con lo stesso problema. Continuammo a parlare, scoprimmo di avere una cosa in comune che prescindeva dalla diversa età, professione, cultura, esperienza: eravamo entrambi affascinati dalla natura e convinti che per stare bene bisognasse solo conoscerla ed assecondarla. Ci salutammo con soddisfazione reciproca e mi invitò ad avvertirlo quando la prossima generazione della mia famiglia avrebbe intensificato la colonizzazione della palazzina da lui progettata.
Non lo vidi più, pochi mesi dopo ebbi la notizia della sua scomparsa e ne rimasi molto rattristato. Passarono un po’ di anni, cominciai a vedere i miei primi capelli bianchi e di conseguenza a pormi delle domande. A vent’anni non ero soddisfatto di come andasse il mondo e giravo la responsabilità di ciò alla generazione precedente, quella di mio padre e di Pellegrin, ma ora con chi me la potevo prendere? Cosa avrebbero pensato i miei figli che stavano nel frattempo crescendo? Parlai di questo mio disagio con mio fratello che nel frattempo erano anni che si era trasferito a Bologna e scoprimmo che, a quattrocento chilometri di distanza, avevamo portato avanti ragionamenti simili. Fu lo spunto per sentirci di più, nel frattempo la tecnologia era andata avanti e potevamo fruire di internet, delle e-mail, di skype, ecc. per poter approfondire il tutto. Alla fine la cosa ci ha appassionato moltissimo, abbiamo pianificato un percorso di studio per avere gli strumenti culturali che potessero permetterci di approfondire il tema e cercare di districare la matassa e, per poter condividere il nostro lavoro con gli altri, in modo da far interagire le rispettive conoscenze ed esperienze, abbiamo scritto un libro che può essere liberamente scaricato dal sito www.ofelon.org nella sua versione digitale. Si intitola “A piccoli passi – percorso di riflessioni” ed è pubblicato sul sito anche in versione “blook”, un neologismo che nasce dalla fusione fra i termini “blog” e “book”. Ogni paragrafo del libro, volutamente mantenuto entro le tre pagine, è stato pubblicato come un thread del blog e come tale commentabile dai lettori, in modo da potersi confrontare sia con gli autori, sia con gli altri lettori.
Solo oggi, ricordando la mia chiacchierata con l’architetto Pellegrin, mi sono reso conto di quanto la stessa abbia influenzato tale libro che appunto si basa su una visione naturalistica di ogni fenomeno sociale e da cui scaturisce un nuovo sistema di organizzazione sociale fondato sulle dinamiche dei piccoli gruppi.
Se qualche “amico di Gigi”, che sicuramente lo ha conosciuto molto meglio di me, avrà il tempo e la voglia di leggerlo, sarò felice di conoscere il suo pensiero in merito.
Quest’anno compirò cinquanta anni e sono sempre qui, due piani sotto l’attico Pellegrin.
Giacinto Sabellotti