Capitolo 1 - Testimonianze

LUIGI (GIGI) PELLEGRIN: UNA VITA CONFUSA CON L'ARCHITETTURA

di Bruno Nicola Rapisarda © - 26 novembre 2012

 

 

 

 

LA PREMATURA CONCLUSIONE

 

Il mio impegno da Pellegrin, come ho detto, non lasciava molto spazio allo studio e questo per me era già un problema avendo deciso, inopinatamente, che fosse importante arrivare alla laurea. Ma chissà, respirando quell’ammaestramento che escludeva ogni altro interesse, forse mi sarei ridotto anch’io ad adorare solo quel Dio e a fottermene di tutto il resto: che, per carattere, io ero naturalmente portato ad appassionarmi ad un unico tema dilatandolo fino a riempirne tutto il mio mondo. Ma la collaborazione con Pellegrin e l’impegno universitario mi stavano portando alla consunzione: quella vera. Fortunatamente la mia collaborazione col Maestro si risolse prima che il mio male esplodesse.

 

La ragione di quella conclusione improvvisa si deve ad un mio atto di presunzione, giustificabile solo con la mia giovane età: a studio Pellegrin erano molti i progetti che andavano curati, ciascuno in una diversa fase elaborativa, ed io venivo spostato come un jolly dall’uno all’altro, dove serviva. Iniziavo la pianta d’un motel per passare al prospetto d’una scuola, poi la sezione d’un edificio residenziale e, dopo, non so cos’altro: non era tenuto in alcun conto il mio bisogno di conoscere fino in fondo l’oggetto del mio lavoro, seguirne l’intero processo progettuale.

 

La mia insofferenza per quella mia reificazione cresceva di giorno in giorno. Ad un certo punto decisi di parlarne privatamente con Pellegrin stesso: volevo sapere da lui se riteneva importante la mia presenza in quello studio che, altrimenti, ne sarei uscito. Quando glielo chiesi ricordo che mi guardò perplesso: forse nessuno fin’allora aveva osato rivolgersi a lui con quel piglio supponente. Infine rispose che: no, la mia presenza non era importante. Come poteva esserlo: io, come ho detto, ero l’ultimo arrivato. Poi, obiettivamente, l’unico importante in quello studio era Lui. Gli altri, ciascuno in modo diverso, potevano essere utili: dei meri utensili facilmente sostituibili. E questo, in fondo, era vero: lo studio Pellegrin corrispondeva a Pellegrin stesso, se non ci fosse stato lui quello studio in via dei Lucchesi non sarebbe stato quello che era, non avremmo nessuna storia da raccontare e non sarebbe rimasto impresso nella memoria di nessuno (nella mia come esperienza irrinunciabile).

 

In seguito, trovandomi a passare di notte per via dei Lucchesi, non mancavo d’osservare quelle finestre sempre illuminate ed immaginavo il laboratorio d’idee in pieno fermento. Talvolta fantasticavo su quell’altra vita: quella che avrei avuto se fossi rimasto lì, impigliato per sempre in quell’unica dimensione.

 

Svariate volte mi capitò di rievocare quell’esperienza con quei miei collaboratori “anziani” che avevano lavorato a studio Pellegrin. Tutti riportavano una profonda impressione di stima per la professionalità, il rigore, la dedizione, l’assoluta identificazione del Maestro col suo “Mestiere”, la sua capacità di coinvolgerti in quella sua totalizzante visione dell’architettura concepita come metafora del mondo: capivo che, in vario modo, ne erano rimasti sedotti.

 

Diversi anni dopo ebbi la fortuna d’incontrarlo. Ricordo una volta in via del Corso: camminavamo sullo stesso marciapiede in direzione opposta . Lui già insegnava in Facoltà e lì si stava recando. Ci fermammo per scambiare due chiacchere. Lui, non so come, si ricordava benissimo di me e mi domandò cosa stessi facendo. L’informai che m’ero laureato, che avevo un mio studio ben avviato, che lavoravo prevalentemente per progetti da realizzare all’estero, nei paesi arabi e altrove. Si complimentò per quell’esito, disse che gli avrebbe fatto piacere vedere i miei progetti. Certo, son cose che si dicono ma, chissà, forse era vero: lui era un uomo pieno di curiosità. Io, però, non ebbi il coraggio di chiamarlo per andarlo a trovare, mostrargli quanto avevo fatto. Non so come avrebbe reagito vedendo i miei progetti spesso ad impianto simmetrico per adeguarli alla cultura della mia committenza araba. L’ultima volta che lo vidi fu alla tesi di laurea d’una mia ventennale collaboratrice ed amica. Lui faceva parte della Commissione di Laurea ed io, prima che questa si riunisse, approfittai per fargli sapere che quella ragazza, non più giovanissima, aveva lungamente “praticato” l’architettura presso il mio studio. Non so quanto questo contò nell’ottimo giudizio finale che ottenne.

 

 

 

LA CERIMONIA FUNEBRE

 

Entrando nella chiesa di S. Ignazio guardai in alto, come se non l’avessi mai visto prima, il grande cielo affrescato da Andrea Pozzo con la Gloria del fondatore della Compagnia di Gesù in un tripudio d’angeli, arcangeli, santi che s’involavano tra le nubi, in fuga prospettica centrale, dentro l’intelaiatura di due finti ordini architettonici sovrapposti.

 

Andando a sedere trovai posto proprio dietro Luca Zevi che non se ne voleva fare una ragione: il suo pianto accorato mi stupì, ancor più che commuovermi. Ero stato ai funerali del padre, l’indimenticabile Bruno, e non gli avevo visto versare una lacrima. In questo caso, invece………………..Non riuscivo a comprenderne le ragioni. In seguito mi capitò di leggere un suo articolo (credo, sul periodico dell’Ordine) in cui parlava della collaborazione avuta con Pellegrin per curare la redazione della rivista “l’Architettura – Cronaca e Storia”, dopo la morte del padre. In quell’occasione, Pellegrin, doveva essere stato per Luca, consigliere, amico e tant’altro: una fonte d’esperienza culturale ed emotiva irripetibile. In quel suo articolo evocava le loro intense conversazioni con incantato rimpianto.

 

Nella piazza davanti al sagrato che fronteggiava la scena dei “burrò” del Raguzzini, in attesa dell’orazione funebre, m’intrattenni con Carlo Cesana e Marta Daretti che ricordavano appena la mia presenza a via dei Lucchesi (erano trascorsi più di trent’anni). Mi dettero la notizia della morte di Giulio Basso. Carlo mi disse che, alla ricerca d’una sua autonomia, aveva lasciato anni prima lo studio del Maestro e s’era messo per suo conto. Ci promettemmo, come accade in questi casi, di ritrovarci ma non ci siamo più visti com’è naturale in questa città così distratta e, poi, presi come siamo dal nostro insaziabile lavoro. 

 

 

 

CONSIDERAZIONI SULLA FIGURA DEL MAESTRO

 

Pellegrin resta nella storia e nella memoria di chi l’ha conosciuto un Grande Artigiano dell’Architettura, nel senso più antico: mi riferisco all’artigianato ch’e’ bottega, fabbrica dell’Opera, sapienza complessa, esperienza incarnata.

 

Pellegrin s’è nutrito del suo piacere di pensare, disegnare, creare spazi: così la sua vita s’è confusa con l’Architettura.

 

Questo è il senso d’un’esistenza spesa ad interpretare l’architettura gustando l’esaltazione del corpo a corpo con la percezione fruitiva della sua spazialità, col piacere di concepirla minutamente senza trascurare alcun elemento compositivo, nessun dettaglio: l’Architettura voluta come spazio significante dell’interazione umana.

 

Pellegrin non ha mai ricercato il successo, la fama, la titolarità di vasti Atelier sparsi per il mondo: era contrario a quelle modalità dispersive che non consentono di praticarla l’architettura, il cui titolare è un nome, una griffe, che ha un rapporto solo sporadico con la sua complessa elaborazione.

 

Pellegrin era un Vero Architetto: niente di simile ai molti “famosi” architetti d’oggi che hanno abiurato all’architettura per trasformarsi in manager di esercizi commerciali che vendono un prodotto che non sanno più cosa sia, ch’è stato pensato e definito da ignoti responsabili di progetto (i ghost-architect, gli autori ombra che nessuno conosce).

 

I “Grandi Studi d’Architettura” sono diventati fabbriche di progetti internazionali in cui si manifesta solo la professionalità degli operatori. Lì, l’architettura è stata consegnata nelle mani di migliaia di bravissimi architetti, tecnici, consulenti, esperti ciascuno nel proprio specialistico campo. I grandi studi con sedi sparse in tutto il mondo sono diventati, tutti, copie sbiadite della premiata ditta Skidmore, Owings and Merrill (S.O.M.), generata anch’essa dal “deprecato” International Style.

 

La fama di Pellegrin resterà nel suo Alto Magistero: il rigoroso, tenace, lirico, coinvolgimento dell’intera vita nel Processo Progettuale dell’Opera Architettonica. 

 

 

 

 

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ACKNOWLEDGMENTS

Even the longest journey begins with a first step! Systemic Habitats is on line since the 18th of May 2012. This website was created to publish online my ebook "Towards a different habitat" on the contemporary architecture and urbanism. Later many other contents were added. For their direct or indirect contribution to its realisation strarting from 2012, we would like to thank: Roberto Vacca, Marco Pizzuti, Fiorenzo and Raffaella Zampieri, Antonella Todeschini, All the Amici di Marco Todeschini, Ecaterina Bagrin, Stefania Ciocchetti, Marcello Leonardi, Joseph Davidovits, Frédéric Davidovits, Rossella Sinisi, Pasquale Cascella, Carlo Cesana, Filippo Schiavetti Arcangeli, Laura Pane, Antonio Montemiglio, Patrizia Piras, Bruno Nicola Rapisarda, Ruberto Ruberti, Marco Cicconcelli, Ezio Prato, Sveva Labriola, Rosario Francalanza, Giacinto Sabellotti, All the Amici di Gigi, Ruth and Ricky Meghiddo, Natalie Edwards, Rafael Schmitd, Nicola Romano, Sergio Bianchi, Cesare Rocchi, Henri Bertand, Philippe Salgarolo, Paolo Piva detto il Pivapao, Norbert Trenkle, Antonietta Toscano, Gaetano Giuseppe Magro, Carlo Blangiforti, Mario Ludovico, Riccardo Viola, Giulio Peruzzi, Ahmed Elgazzar, Warren Teitz, and last but not least Lena Kudryavtseva.  M.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

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