I MODELLI
DI OGGI
Verso un altro habitat - Vol. I, Cap. 11
E I MODELLI
abitativi innovativi di oggi? Chi li ha visti? Dove sono?
Di innovazione tipologica ce n’è ben poca, e l’unico vento di rinnovamento arriva dalle proposte e dalle realizzazioni dell’architettura sostenibile, la quale per il momento si occupa più di innovazione tecnologica che, appunto, tipologica.
Esclusa qualche meritoria rara eccezione dovuta a chi ha ancora la forza e il coraggio di parlare ai sordi, il panorama a livello mondiale è in generale desolante.
Trent’anni di tempo perso. Si continua a cotruire sempre allo stesso modo, con enormi sprechi di energia, spazio, territorio. Sempre con le stesse ottuse metodiche costruttive, e sempre con gli stessi regolamenti edilizi limitanti e fallimentari.
Come ha ricordato l’architetto Rossella Sinisi di recente, a nulla è valsa la Carta del Machu Picchu del 1977 che avrebbe dovuto sostituire quella di Atene del 1933, e sancire l’abbandono della pianificazione mediante zoning in favore dell’integrazione e della complessità in architettura ed urbanistica.[1]
Infatti, come si è detto più volte perché questo è uno dei punti fondamentali della questione, il rinnovo urbano delle periferie e dei suburbi procede tuttora con la sostituzione di “un pezzo” con un nuovo pezzo, e così facendo il sistema complessivo rimane per lo più inalterato.
Se sostituiamo il motore a benzina di un’automobile con un motore a bassissimo consumo energetico, avremmo forse ottenuto così un’automobile dalle caratteristiche ideali e inusitate, ma il risultato del sistema globale è sempre lo stesso: traffico, asfalto, eccesso di mobilità, un’intera autovettura per trasportare una persona e qualche chilo di peso.
A quasi un secolo di distanza dall’invenzione del calcestruzzo armato e dalla nascita dell’architettura razionalista, con tutte le loro conseguenze – che sono appunto le periferie e i suburbi delle città moderne -, i progressi che si registrano sono per il momento praticamente insignificanti. Gli unici movimenti che si muovono nella direzione opposta e che forse riusciranno a cambiare questo stato di cose sono proprio l’architettura sostenibile e la bioarchitettura.
Per cui si può tranquillamente affermare che da trent’anni a questa parte non c’è stato alcun progresso tipologico significativo in fatto di habitat, nonostante le mille innovazioni tecniche particolaristiche, perché in generale l’architettura residenziale si fa sempre allo stesso modo, le fabbriche si fanno sempre allo stesso modo e gli uffici sempre alla stessa maniera di cento e più anni fa’: scatole, contenitori, oggettistica.
Non importa se ci sono tantissimi edifici a destinazione speciale con caratteristiche d’eccezione che contraddicono la regola della monotonia tipologica, perché quella lì è l’architettura monumentale, celebrativa, quella delle occasioni speciali. E da sola non basta a colmare il vuoto di intenti e di pensiero riguardo la definizione di modelli abitativi autenticamente contemporanei. L’architettura monumentale non fa primavera.
Al più queste architetture celebrative delle grandi occasioni (Expo, strutture per le Olimpiadi, ecc.) possono costituire motivo di orgoglio per una determinata comunità, e questo non è certo un male, anzi è del tutto pacifico ed è un bene: meglio esibire un grattacielo alto un chilometro o un megastadio olimpionico, piuttosto che combinare disastri in giro per il mondo. E quindi, infatto di modelli tipologici abitativi innovativi c’è da colmare un vuoto lungo trent’anni.
Qualcuno ogni tanto ci riprova, e poi come da copione non succede un bel nulla.
E’ il caso del Sistema industrializzato di alloggi per Hanssem, in Corea, un progetto del 1991 della Richard Rogers Partenership, purtroppo non realizzato.[2]
Si trattava di un grattacielo residenziale, un “normale” edificio a torre, normale solo in apparenza. Innanzitutto si proponeva come dinamico, asimmetrico ed armonioso, nulla a che vedere con i soliti prismi paranoici riccamente decorati che si continuano a realizzare dappertutto. In secondo luogo, non era stato concepito per essere costruito nel solito modo, cioè “un pezzetto alla volta”.
Infine, sebbene fosse stato previsto un componente di base abitativo modulare, prefabbricato e scatolare, questo era totalmente personalizzabile al suo interno da parte degli acquirenti. Il tutto avrebbe permesso di avere degli alloggi di alta qualità ma a costi più bassi dell’ordinario.
Risultato: alla fine abbiamo sempre le solite abitazioni-scatola. Invece no, è tutto un altro modo di concepire l’architettura, è un modo che si definisce più propriamente “sistemico”, come una sorta di gigantesco Lego.
E’ questo il punto di partenza per una rapida evoluzione tipologica verso la complessità e la diversità interspecie.
Non stiamo parlando di semplice prefabbricazione, che può o non può sussistere, quanto piuttosto di una determinata modalità ideativa, progettuale e costruttiva che porta a realizzare la complessità mediante pochi semplici elementi di base e con poche varianti. Su questa “impalcatura”, su questa struttura, successivamente si possono avere mille eccezione, ovvero mille e mille strutture particolari ad essa collegate ed integrate. La forma segue la funzione, e le forme sono infinite. Quindi è inutile eprdere tempo con le forme ed è meglio non farci impressionare dai primi irisultati magari solo apprentemente deludenti. Guardiamo alla sostanza.
Torniamo per un momento indietro nel tempo, precisamente nella Francia di nove secoli fa, grosso modo solamente di trenta generazioni.
Si pensi all’architettura delle cattedrali gotiche francesi intorno ai secoli XII e XIII d.C. Si pensi a quanto siano simili una all’altra, eppure nel contempo tutte diverse l’una dall’altra, cioè ciascuna con un “carattere proprio” sia internamente che esternamente, quasi avessero ciascuna una propria personalità.
I costruttori delle cattedrali francesi resero visibile l'invisibile - lo spazio -, ma prima di tutto, essi diedero un corpo allo spirito di una comunità. Nel periodo più maturo della fioritura delle Cattedrali di Francia, in soli 100 anni furono innalzate circa 100 grandi cattedrali. Come fu possibile?
Quelle cattedrali non furono realizzate “in stile”, bensì furono edificate grazie all’elaborazione di un vero e proprio codice, un linguaggio sistemico dell’architettura.
Ovviamente il processo evolutivo tipologico e costruttivo, di derivazione romanica, è stato molto più vasto nello spazio e nel tempo. Tuttavia questo “linguaggio” è evoluto molto rapidamente ed è praticamente nato e cresciuto in Francia. Materializzato nel corso di questo complesso e articolato processo il suo elemento essenziale tridimensionale – cioè la volta a crociera -, così come tutti gli altri componenti di base coordinati e ad essa amalgamati (archi rampanti, vitrail, etc.), tutto era pronto per produrre il “miracolo”.
In esse, nelle grandi Cattedrali di Francia del XII e XII secolo d.C., la complessità spaziale venne determinata appunto essenzialmente con l’ausilio di pochissimi elementi modulari, ripetuti senza che la stessa ripetizione fosse sfacciatamente palese ed onnnipresente.
Ovviamente la natura fa ancora di meglio: non è possibile trovare una sola costola o una sola vertebra uguale all’altra in un organismo vertebrato. Eppure il modulo morfologico e tipologico c’è, variato come in una composizione musicale, mutato in un flusso, ma c’è.
Ai nostri giorni questa sistemica è presente nelle architetture di Santiago Calatrava, in quelle di Norman Foster, di Richard Rogers, di Renzo Piano e di altri ancora.
E’ la stessa sistemica organica del Crystal Palace di Paxton. La stessa delle opere visionarie di Antoni Gaudì, forse meno riconoscibile data la sua infinita vivacissima immaginazione paragonabile solamente a quella altrettanto fervida di un Johann Sebastian Bach o a quella di un inarrivabile Frank Lloyd Wright.
Allora che facciamo? Diciamo che tutti questi suddetti signori sono dei geni, noi invece restiamo con i piedi per terra – noi comuni mortali -, e quindi che ci meritiamo e teniamo le squallide periferie e sobborghi delle città contemporanee?
Ridurre tutto a una questione di genialità significherebbe sminuire il loro paziente lavoro. Perché in realtà essi sono o sono stati dei grandi lavoratori, con una grande talento, ma essi sono pur sempre umani. Hanno adottato un metodo. Sistematico o asistematico, chi può dirlo? Questo fatto è irrilevante, perché ciò che conta è che essi abbiano adottato dei criteri ben precisi, forse non immutabili, forse sempre diversi o personalissimi, questo non ci interessa.
Sta di fatto che senza idee né passione, senza un metodo né speranza, senza un minimo di curiosità per ciò che ci circonda, senza di spirito di osservazione e ricerca della verità, non si costruisce un bel niente di buono, tanto meno una architettura fatta a misura d’uomo.
Di chi è la colpa se le cose vanno male e ci troviamo a vivere in queste città abominevoli, cercando consolazione nei centri storici, oppure durante un’escursione in qualche luogo ameno?
E’ colpa forse dei politici? O di noi cittadini? E’ tutta colpa degli architetti? Perché mai prima d’ora ci sono stati tanti architetti, geometri ed ingegneri sulla faccia della Terra, e mai come oggi l’architettura del passato di tutte le civiltà rimane insuperata con un livello qualitativo ineguagliabile, bilanciato dall’altra parte da una abnorme spaventosa quantità di edilizia contemporanea usa e getta.
E’ forse colpa tua o mia se le cose stanno così? Sei troppo confor-mista, fatalista, accomodante, ti contenti forse di poco?
Come cittadino cerchi di adattarti a questa realtà chiamata “città”, ti omologhi alle mode, ti aggiorni, ti ritagli un posto al sole, immoli un po’ di status symbol sul suo vorace altare, e intanto lei – questa mostruosità ribattezzata habitat-città -, ti leva energia vitale giorno dopo giorno, distraendoti con l’illusione di una felicità materiale che non ti appagherà mai.
Ma non è colpa tua, né mia, né di nessun altro in particolare, perché le città moderne rappresentano nient’altro che l’assenza di una visione da parte di intere comunità.
Sono le società contemporanee nel loro insieme che non hanno con-sapevolezza di sé.
Le società contemporanee sono infatti alla mercé della tecnica e della logica bizzarra del mercato economico. Se continuiamo così, saranno le macchine a meritarsi lo spazio offerto dalla superficie della Terra, non gli uomini. Mentre ci sarebbe posto per entrambi, per una simbiosi ed un’integrazione che può essere offerta ancora una volta solo dall’architettura.
Senza una consapevolezza e una visione concreta della realtà che circonda non è proprio possibile dare risposta al problema di un abitare a misura d’uomo.
Guarda caso è con la caduta delle idologie – giuste o sbagliate che fossero -, che è venuto a mancare lo spirito di ricerca di un abitare migliore.
Guarda caso è proprio là dove la cultura viene vista come bene comune e come una priorità per la colletività al pari del diritto al lavoro e alla salute, che le comunità riescono ad elaborare delle risposte concrete al problema dell’abitare moderno.
E saranno forse ideologie come quella apparentemente solo scientifica dell’ecologia a fornire precise risposte in tema di abitare. Cosa c’è infatti dietro qualsiasi forma di sensibilità “ecologica”, cioè dietro ad ambizioni come lo “sviluppo sostenibile”, o tutto al contrario la “decrescita”, se non la volontà delle persone di ritornare alle origini, ossia all’integrità tra mondo interiore e mondo esteriore?
Anche questa è una visione, appunto apparentemente di stampo scientifico per quanto riguarda l’ecologia, ma in realtà pienamente umanistica, dal momento che tende a ripristinare un rapporto più diretto tra individuo e ambiente, tra società e natura.
Infatti se pensiamo agli assunti dell’architettura sostenibile, cosa c’è di più ecosostenibile che costruire secondo le tecniche premoderne in determinati contesti?
Basti pensare alle costruzioni in mattoni crudi di argilla e paglia, le cosiddette “case di fango”. Una tecnica costruttiva ritenuta sinonimo di sottosviluppo, presente in tutti i continenti e in tutte le epoche storiche, anche in Europa ancora fino al secolo scorso, e presso differenti civiltà e culture tribali. Oppure pensiamo alla tecnica del pisé ancora in uso in Francia fino all’inizio del XX secolo, una tecnica particolare di costruzione mediante terra cruda battuta, compressa tra due cassaforme montanti.
I mattoni crudi però non piacciono a chi vuole produrre cemento a dismisura, eppure, sono perfettamente riciclabili, perfettamente biocompatibili, e permettono di realizzare edifici a bassa densità abitativa (cioè di uno o pochi livelli di piano) con costi notevolmente contenuti e soluzioni alternative alla solita edilizia corrente.
Come al solito in Italia siamo sempre indietro. Meglio trasmettere una partita di calcio in più in televisione, che informare i cittadini. Non sia mai che il troppo pensare possa nuocere alla loro salute mentale!
Viceversa in Francia ed in altri Paesi queste tecniche premoderne sono state rivalutate e perfezionate tecnicamente con appositi studi e ricerche [3], fino ad arrivare al punto di poter prevede il comportamento statico di una costruzione in terra cruda anche rispetto agli eventi sismici. In altre parole si possono realizzare facilmente costruzioni antisismiche anche con in mattoni crudi o con la tecnica del pisé.
Ma in Italia non sono solo Palazzinari & C. che non amano il mattone crudo, perché è ancor prima lo stesso italiano medio che non andrebbe mai a vivere in una “casa di fango”. Poco importa se la casa definitiva e “solida” - solida per modo di dire, perché è sotto gli occhi di tutti quello che purtroppo succede quando c’è una scossa sismica seria -, poco importa se quella casa gli costa grossi sacrifici economici per tutta la durata della propria vita.
Ritorniamo all’architettura sistemica, uno dei temi che stiamo affrontando.
In questa sede si è usata la parola ed aggettivo “sistemica” e non “sistematica” per un motivo ben preciso, che il lettore dovrebbe ormai aver capito fin dalle prime battute.
Infatti l’aggettivo “sistematico” riferito all’architettura sta a significare che si è realizzata una determinata costruzione con un determinato criterio, con un metodo ben preciso. Potrebbe essere un metodo costruttivo, oppure una tecnica di prefabbricazione, oppure semplicemente un metodo compositivo geometrico modulare.
Ciononostante il tema che abbiamo affrontato fin qui è ancora più ampio e comprende non solo le questioni di metodo, ma pure la ricerca e la definizione di una “sistemica”, vale a dire qualcosa che avviene ad una scala più ampia di quella del limitato contesto in cui operiamo, qualcosa di relazionato a più livelli e secondo differenti modalità sia al livello “interno” del sistema stesso – ovvero di relazioni tra i componenti del sistema -, che con altri elementi e processi “esterni” al medesimo sistema. Tutto ciò sia in termini spaziali, che funzionali, che temporali.
Per esempio, come si costruiscono i casermoni prismatici delle città moderne?
Un pezzetto alla volta: tic tic tic tic tic tic tic tic tic tic … Una miriade di pilastrini in cemento armato, con tante gettatine di calcestruzzo piano dopo piano.
Invece come si costruisce un viadotto autostrale? A suon di decine di metri alla volta, il ritmo è totalmente diverso, la “scala” è totalmente diversa.
Da una parte abbiamo questi casermoni con i loro miserevoli pilastrini nascosti dai muri, e dall’altra un viadotto autostradale.
Sono due modi diversi di misurare lo spazio, sembra quasi che li abbiano costruiti due civiltà diverse: una assiro-babilonese, e l’altra, quella che costruisce i ponti e viadotti, in confronto sembra una civiltà extraterreste!
La prima modalità operativa e concettuale sarà pure sistematica, ma non è sistemica, è obsoleta, non è adeguata alla scala e ai tempi della realtà contemporanea.
Se proprio dobbiamo essere per qualche motivo particolare obsoleti, per esempio per motivi di ordine economico od ecologico, tanto vale rivisitare tecniche costruttive premoderne come quella dei mattoni crudi.
Una conseguenza di tutto questo è che l’architettura sistemica può coesistere con quella premoderna.
Per capirci meglio, possiamo concepire un sisma misto dato da organismi territoriali sistemici che offrono servizi e funzioni ad un territorio circostante rurale in cui il sistema insediativo abitativo è dato da economicissime ed ecologicissime costruizioni in adobe, mattoni crudi, argilla e paglia, o meglio qualcosa di poco più raffinato alla luce delle moderne acquisizioni tecnico-scientifiche.
Né più né meno che quello che offriva un tempo una cattedrale medioevale: servizi spirituali essendo un luogo sacro per il culto religioso, e pure seervizi materiali dal momento che le stesse cattedrali venivano utilizzate per altre funzioni pratiche, come il mercato, l’amministrazione della giustizia ed altri eventi collettivi. Una cattedrale era così una vera e propria entità organizzante il territorio circostante.[4] In altre parole, era un organismo territoriale.
Allora anche un moderno palazzo ad uffici di un qualsiasi centro direzionale della city di una qualsiasi metropoli è un organismo territoriale?
No, il livello di partecipazione collettiva e relazionale nel primo caso è prossimo allo zero, ed è soprattutto unidirezionale. Di lì partono le direttive in direzione di un determinato ambito che le subisce. Non c’è alcuna interazione e retroazione.
Sebbene in architettura si possa essere asistematici e totalmente antigeometrici pur realizzando qualcosa di monumentale e grandioso – si pensi al Museo Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry -, questi non sono i modi propri dell’architettura, quanto piuttosto quelli della scultura e della computer art, visto che vengono il più delle volte concepiti con banali deformazioni dei soliti schemi cartesiani tramite l’ausilio deivari software CAD (computer aied design, progettazione assistita al computer) disponibili in commercio.
Non è deformando la griglia geometrica del solito casermone, tagliando qualche pilastro qua e là, mettendoci qualche legnetto sopra e calze a rete sexy di acciaio inox che si fa innovazione tipologica.
L’architettura è arte? Forse, oppure: sì; oppure: anche.
L’architettura è come la scultura? No.
Entrambe sono fatte a misura d’uomo, sono un’offerta per le persone, ma dentro una scultura non ci si può vivere. Sono entrambe un qualcosa di trimensionale, entrambe misurano lo spazio nelle tre direzioni elementari, ma l’architettura a differenza della scultura contiene e dà forma allo spazio interno, accoglie le persone.
Solo una visione superficiale, dall’esterno, può far supporre che archietttura e scultura siano la stessa cosa. Sì, esperita dall’esterno l’architettura è più simile, se non apparentemente identica alla scultura. Il che non vuol dire aver capito che cos’è l’architettura, funzionalmente simile per il nostro corpo ad un vestito, spiritualmente simile nel caso migliore ad una scultura quando essa, l’architettura, non è semplice mera edilizia.
Tutta la critica appassionata fin qui esposta contro la città e contro i movimenti archiettonici formali, non va intesa come un qualche nuovo integralismo di bieco stampo moralistico, e neanche va presa alla lettera.
Il punto a cui si vuole arrivare è che la società contemporanea si deve liberare una volta per tutte dei vecchi schemi urbanistici millenaristici e selezionare solo ciò che ancora merita di durare, perché a furia di calzare scarpe strette andrà a finire che i piedi vi faranno male.
Lo sanno pure i sassi che l’ambiente forma la psiche umana. E quindi ricominciamo pure da dove si era finito: dai modelli abitativi innovativi.
Cosa c’entra la sistemica con tutto questo? C’entra, perché può essere di ausilio per la codifica di un linguaggio dell’architettura contemporanea, possibilmente ad una scala – quella della prefabbricazione parziale o totale, quella dell’industrializzazione dell’edilizia -, adeguata ai nostri tempi e all’ordine di grandezza della popolazione mondiale: miliardi di persone, non poche sparute tribù sparse in un territorio immenso, il paradiso perduto.
Che cose incredibili può fare la sistemica. Con pochissimi componenti di altissima qualità si riesce a codificare ed identificare in modo univoco qualcosa estremamente complesso come il linguaggio umano. Sono sufficienti una ventina circa di lettere, quelle dell’alfabeto fonetico, il sistema di scrittura occidentale, per scrivere qualsiasi cosa ed esprimere qualsiasi concetto. A ciascuna lettera è associato un suono, le lettere si combinano tra loro a formare e registrare le parole e complesse precise strutture di pensiero. Certo, il sistema di scrittura alfabetico ha dei limiti: è sequenziale ed induce a ragionare in termini logici sequenziali piuttosto che per associazione di idee, un sistema di scrittura più immediato in fase di lettura.
Però a differenza di altri sistemi di scrittura, come quello dei geroglifici egizi oppure quello degli ideogrammi cinesi, il sistema fonetico permette una scrittura meccanizzata rapidissima e molto precisa in confronto ad altri sistemi di scrittura.
Secondo quanto ci ha trasmesso Platone, il ben noto filosofo greco, pare che Socrate fosse convinto che con soli 22 elementi base, da lui definiti come archetipi, si potesse descrivere l’intero universo. Addirittura l’intero universo delle forme che sperimenta il nostro corpo e che esperiamo mediante i nostri sensi, sarebbe stato creato grazie a questi soli 22 semplicissimi componenti. A posteriori, dopo aver letto il libro del Pincherle ho cercato di ritrovare traccia di questo riferimento agli archetipi da parte di Socrate nei vari testi di Platone, nememno tutti, ma niente, non ne ho trovato alcuno. Tutatvia questo aspetto è di scarsa rilevanza. Che siano in qualche modo riconducibili a Socrate, oppure interamente ideati dal Pincherle, sta di fatto che è quest'ultimo che ce ne parla.
Il filosofo contemporaneo Mario Pincherle - ingegnerie laureato, ma si è occupato anche di filosofia ed archeologia -, afferma di avere riscoperto i 22 archetipi socratici matrici del mondo, e distingue tra 22 forme-funzioni,[5] guarda caso, come egli stesso ha evidenziato, in numero del tutto simile come ordine di grandezza al numero di componeti del sistema dell’alfabeto.
In un universo dalle infinite molteplici forme, il Pincherle sostiene che la forma segue la funzione, e che i 22 archetipi cui alludeva Socrate altro non siano che 22 funzioni elementari non riducibili ulteriormente ad altre forme elementari. Sempre secondo il Pincherle, Gustav Jung ne avrebbe riscoperti solo 7, mentre lui li ha riscoperti tutti e 22, tra cui la forma-funzione unificante, ossia l’archetipo degli archetipi, ossia di tutti gli altri 21 rimanenti.
Sempre secondo il Pincherle, con un ragionamento sensato, questi 22 archetipi sarebbero stati confusi da Platone, discepolo di Socrate, con le combinazioni di archetipi, cioè con le idee, le quali non sono affatto archetipi, bensì combinazioni complesse di archetipi.
Tuttavia sempre secondo Pincherle l’uso degli archetipi sarebbe condizionato dalla conoscenza delle 10 modalità secondo le quali gli archetipi possono funzionare, ossia esplicarsi: 6 spaziali, cioè le 3 direzioni dello spazio, raddoppiate secondo il loro verso, poi secondo le 2 direzioni del tempo, ed infine 2 modalità ritmiche, una continua e l’altra alternata.
I 22 archetipi di Socrate e di Pincherle sarebbero le seguenti funzioni (tra parentesi indichiamo una qualsiasi corrispondente forma-funzione, ossia una qualsiasi “forma” che quella determinata funzione può assumere tra le infinite forme possibili):
1 – la funzione unificante / l’unione degli opposti, la complementarità [6] (forme-funzioni: la doppia spirale / il gancio);
2 – la funzione contenitrice/contenitore/contenere (esempi di forme funzioni: il vaso di Pandora / il recipiente );
3 – quella rotante / la rotazione / girare (la ruota / godrone);
4 – la funzione indeformante / la solidità / solidificare (il triangolo sacro / la squadra / la capriata / la struttura triangolare isostatica);
5 – la funzione vivificante /vita / lodare (l’albero della vita / arti ), che, aggiungiamo noi, si potrebbe definire come la definisco Maturana e Varela, ovvero l’autopoiesi; [7]
6 – la funzione portante / congiunzione / agganciare, unione temporanea delle cose (l’uncino / chiodo, sostegno);
7 – la funzione frenante / eternità / durare (lo Zed/fermare il tempo concettualmente, il “T con zero” della fisica);
8 – la funzione proteggente o isolante / riparo / proteggere (forme-funzioni: lo scudo / l’esoscheletro della tartaruga / un libretto di istruzioni di prevenzione infortuni /ecc. );
9 – la funzione cedente / matrice, che si lascia penetrare (il fiore di loto / il foro); notiamo che la funzione cedente e quella penetrante sono complementari;
10 – la funzione riducente / concentrazione / concentrare (il punto); complementare a quella espandente;
11 – funzione pungente, penetrante / penetrazione / penetrare (il dardo / la punta / il dente canino / il cuneo);
12 – misura / misurare (il braccio o il cubito sacro / compasso / proprorzionare, rendere le cose a misura d’uomo);
13 – la funzione informe o della liquidità / nutrire (esempi di forme-funzioni: l’onda / ambiente); notiamo che all’interno di un contenitore il liquido assume la forma complementare del contenitore;
14 – l’archetipo della trasformazione / trasformare (il sacro rombo, il trasformista/ rombo);
15 – la funzione comprimente / pressione / comprimere (il frantoio / la pressa / i denti molari);
16 – la funzione collaborante (copulare) o della corrispondenza / corrispondere (gli occhi / reciprocità / azione scambievole / le relazioni tra le parti);
17 – la funzione espandente / espansione / espandersi (il sole / gas / esplosione, quando l’ingrandimento è istantaneo);
18 – divisione / tagliare (la falce / coltello / il dente incisivo);
19 – funzione legante / legame / legare (la spira / gomitolo), l’unione stabile delle cose;
20 – perfezione / perfezionare / la funzione della bellezza (la sfera / forma perfetta);
21 – l’archetipo della traslazione / traslare (la nave o vascello cosmico), è l’archetipo del moto rettilineo, sempre secondo Mario Pincherle; questo archetipo e quello della rotazione sono in grado di muovere fisicamente o concettualmente tutto l’universo, cioè forme-funzioni e pensieri;
22 – la funzione resistente / reazione ad ogni azione / reagire (es. di forme-funzioni: la croce o il patibolo / una resistenza elettrica), il principio di azione e reazione, le reazioni vincolari.
Qualcuno dirà: perché sottilizzare con questo eufemismo della “forma-funzione”, quando si potrebbe parlare sempre di funzione da una parte e forma dall’altra? Semplicemente per sottolineare il fatto che, sebbene le 22 funzioni di Pincherle possano assumere infinite forme, il risultato finale è una forma che continene in sé perfettamente integrata e “nascosta” una determinata funzione, un determinato compoente di base del pensiero, ovvero un determinato archetipo, oppure ancora una determinata combinazione di archetipi.
Per comprendere appieno il pensiero di Pincherle – che sia effettivamente una riscoperta dei 22 archetipi di Socrate oppure una scoperta e ideazione di Mario Pincherle, la cosa per noi ha scarsa rilevanza -, bisogna almeno leggere il suo libro sull’argomento, cioè “Archetipi”, e qualche passo di Platone.
Se è vero quanto afferma il Pincherle, nessuno riuscirà mai a ridurre questi archetipi ad un numero inferiore a 22. Per chi sia interessato all'argomento, si riporta in appendice un approfondimento con una revisione critica dei 22 archetipi del Pincherle.
In seguito a questa digressione, ci preme soltanto evidenziare come sia possibile, grazie alla sistemica, costruire la complessità a partire da pochi elementi di base, o al contrario, come sia possibile in modo reversibile decifrare con metodo la complessità individuandone i componenti che la determinano, ad esempio con la teoria funzionalista e non solo, appena illustrata.
Il passo successivo ci porta a chiederci perché la serialità produce per quanto riguarda i nostri habitat-città quel nulla disumano che ci opprime, buono e bello solo per i perfettamente integrati e normali (secondo loro) polli umanoidi di allevamento industriale, i quali razzolano felicemente nel crostone delle periferie urbane e tra la melma dei suburbi urbani?
Poiché la serialità è data dalla ripetizione indefinita di semplici edifici contenitori, di più o meno semplici tipologie architettoniche, ci chiediamo perché questi aggregati non costituiscono un sistema e non determinano un habitat a misura d’uomo?
C’è qualcosa di sbagliato nella serialità?
Prendiamo ad esempio la chioma di un albero. Contiamo migliaia di foglie, sono tutte più o meno uguali, c’è una struttura autosomigliante a più livelli e più scale, eppure la ripetizione non è visibile. C’è un “disegno” di insieme, una unità tra tutti i suoi componenti per cui noi diciamo che le singole foglie formano nell’insieme una chioma, ed ad una scala maggiore l’intero albero.
In conclusione, senza stare ad analizzare che cosa sia una struttura ad albero, o a descriverla nei suoi componenti di base, nessuno di noi direbbe mai che un albero è solo una somma di foglie, cioè nessuno di noi direbbe che un albero è astrutturato, una somma che non si somma.
Nessuno di noi direbbe mai che una somma di capelli di una persona sono solo un numero X di capelli e basta in testa ad una persona. E nessuno direbbe mai che una città come Venezia, o qualsiasi altro centro storico di qualsiasi altra città del mondo, è solo una somma di edifici, un numero X di costruzioni.
Il problema dei moderni habitat-città è sempre quello che i suoi componenti non sono tra loro relazionati in modo organico, né con la dimensione umana, e nemmeno con l’ambiente, il contesto.
Questa assenza di relazioni è il segno inequivocabile della pressoché totale assenza di idee, e della scarsissimo coinvolgimento dei cittadini come attori del processo insediativo.
E’ per questo motivo che è di importanza vitale ripensare la città, è per questa ragione che bisogna ricercare, elaborare e definire dei modelli abitativi innovativi non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche da quello tipologico.
Quindi ben vengano tutte le proposte innovative dell’architettura sostenibile, come Masdar City ad Abu Dhabi negli Emirati Arabi Uniti in corso di realizzazione, ma cercando di procedere ugualmente alla concezione di spazi innovativi nonché a misura d’uomo, e non solo a misura di business e del disimpegno.
[ omissis ]
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[1] Da Rossella Sinisi: “Approccio multidisciplinare alla progettazione ecosostenibile”, presidente Sez. Roma 1-INBAR Istituto Nazionale di Bioarchitettura e organizzatrice della mostra itinerante “Architetture per la città sostenibile”, 3 febbraio 2010 – 4 novembre 2010, intervento presente nel catalogo della stessa mostra.
[2] Vedi di Richard Rogers: “Città per un piccolo pianeta”, pag. 81 e seguenti, Ed. it. Kappa, Roma 1997. Oppure , di AA: VV: il catalogo della mostra “Richard Rogers + Architects”, Editions du Centre Pompidou, Paris 2007, pag. 94 e 95 “Système de logements industrialisés”.
[3] Basti pensare ai Geopolimeri e alla chimica della pietra naturale riaggregata, una scienza e una tecnica messe a punto in Francia dal Prof. Joseph Davidovits, con numerosi studi e ricerche scientifiche e tecniche.
[4] Vedi ad es. di Jean Gimpel: “I costruttori di cattredali”, Jaka Book 1983; oppure di Roland Bechmann: “Le radici delle cattedrali”, edizione italiana, Arkeios Roma 2006.
[5] Mario Pincherle: “Archetipi – Le Chiavi dell’Universo”, Fidelfo Ed., Perugia 1985, riedito da Macro Edizioni, Diegaro di Cesena 2001-2005. Questo libro dell'Ing. Pincherle ha il vantaggio della scorrevolezza di lettura, ma le fonti non vengono mai citate in apposite note in appendice, il che relega questo splendido lavoro nell'ambito di semplici ipotesi riguardo i particolari collegamenti con i testi dell'antichità. Per fare un solo esempio: vedasi a pagina 29 la citazione di un presunto passo di Lao Tse: nel Tao-Te-Ching non vi sono affatto contenute tali parole; a quale testo allora di Lao-tzu si allude? Se le cose stanno così, a maggior ragione parleremo dei "22 Archetipi di Pincherle-Socrate", o del geniale Pincherle e basta, giacché diventano una sua esclusiva scoperta.
[6] Sulla complementarità vedi ad es.: “Il tao della fisica” di Fritjof Capra, Adelphi Milano 1989; “Il tao: la via dell’acqua che scorre” di Alan W. Watts, Ubaldini Roma 1977; gli scritti antimanicheisti di Agostino d’Ippona, IV sec. d.C.
[7] Che cos’è la vita? Come riconoscere un sistema vivente? A questa domanda cercano di dare una risposta Humberto Maturana e Francisco Varela nel loro “Macchine ed esseri viventi – L’autopoiesi e l’organizzazione biologica”, Astrolabio Ed. Roma 1992; rimaniamo tuttavia all'interno di una visione meccanicistica riduttiva del vivente, che ignora il "motore primo", ossia tutto ciò che appartiene al mondo spirituale.
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