L'ARCHITETTURA

DIMENTICATA:

 

I MODELLI ABITATIVI

INNOVATIVI

DEGLI ANNI '70

 

Verso un altro habitat - Vol. I, Cap. 10

 

 

 

 

SI E' SEMPRE

discusso su cosa sia la città, quale debba essere la sua migliore forma o la sua organizzazione ideale. [1]

Le città sono un fenomeno che accompagna da sempre il succedersi delle civiltà dei popoli sedentari.  Sui difetti delle città sono state spese migliaia di parole.

Invece, la città - con i suoi pregi e i suoi difetti - resta sempre là, continuando a esercitare il suo forte richiamo sugli abitanti delle periferie del mondo, in tutti i modi possibili.

 

E’ inutile negare la realtà della città, perché questi habitat accolgono oggi più della metà della popolazione mondiale – cioè oltre tre miliardi di persone, e va da sé che esse sono una realtà non azzerabile con la disanima dei suoi disvalori o con qualche chiacchiera alla moda sul come eluderla, come andare a vivere in un paradiso dorato attingendo però sempre risorse e benessere da quella stessa città che rifuggiamo.  Pochi possono permettersi il lusso di vivere in un panfilo o in un atollo della Polinesia.

 

Visto il successo crescente che essa ha riscosso e riscuote a livello mondiale, al momento possiamo solo pragmaticamente pensare di trasformarla innescando un insieme di processi destinati a curare quella che è una malattia simile al cancro.

Nella città gli edifici-cellula si replicano in maniera abnorme con una struttura complessiva che è sempre la stessa, perché non vi è organizzazione, non c’è altra strategia che non sia quella clonazione, quella della addizione di nuove informi quantità.

Come abbiamo già ricordato, che si tratti di una città di diecimila abitanti o di dieci milioni di abitanti gli schemi urbanistici adottati sono sempre gli stessi:  la zonizzazione delle superfici, la lottizzazione delle superfici,  a scacchiera o secondo ornamentali linee sinuose  (che hanno un senso decorativo solo se viste dall’elicottero), oppure la crescita caotica, sempre in orizzontale, a ridosso delle grandi vie di comunicazione, fino alla la saturazione di tutti i possibili interstizi dati dalle aree rimaste  libere.  L’effetto finale è l’anarchia, ma il cittadino non se ne renderà mai conto perché la sua mente è annebbiata dal fatto di vivere in una città.

La città esiste da sempre ed è pur vero che altri uomini nel passato vi hanno vissuto in condizioni anche peggiori d iquelle attuali.  In città ci sono più opportunità di lavoro, più possibilità di incontro, più merci disponibili e quindi più scelta, i migliori specialisti e le specialità di tutti i tipi, la sede di rinomate istituzioni.  In città c’è proprio tutto e ci sono tutti.  Quindi l’individuo nato o divenuto “cittadino” si autoconvince che si deve adattare a questa condizione:  “non è la città che non funziona, bensì è la mia personalità che non va.  Devo mutare il mio comportamento, adeguarmi alle mode e alle tendenze, normalizzandomi.  Così diverrò un vero cittadino, una vera cittadina, una persona bene integrata e normale!”.  Ma quale normalità, se non quella dei polli di allevamento industriale?

 

Purtroppo questa tensione all’integrazione con il proprio ambiente “cittadino” e "civile" non troverà mai una conclusione.

Come evitare questa mole di conformismo?  Qualcuno ci ha provato, almeno fino alla fine degli Anni ‘70:

 

Arturo Soria y Mata:  1882 La Ciudad Lineal;

Ebenezer Howard:  1902 Garden Cities of Tomorrow;

Tony Garnier:  1917 Une Cité Industrielle;

Richard Buckminster Fuller: 1927 Multiple-Deck 4D; Dymaxion House 4D;

Le Corbusier :  1931 La Ville Radieuse;

Frank Lloyd Wright : 1932 The Desappering City, 1935 Broadacre City, 1958 The Living City;

Richard Buckminster Fuller: 1941 Dymaxion Deployment Unit D.D.U.; 1945 Wichita House; 1951-1954 Cupola geodetica; Stabilimento per la filatura automatica del cotone;

Kijonari Kikutake: 1958 Marine City;

Yona Friedman: 1960 Spatial City;

Kenzo Tange: 1960 Piano per la Baia di Tokyo;

Paul Maymont: La Ville Verticale, La Ville Sospendue, La Ville Flottante;

Peter Cook: 1963 Montreal Tower, 1964 Plug-in City, 1966 Blow-out Village;

Ron Herron - Archigram:  1964 Walking City;

Richard Buckminster Fuller e Shoji Sadao: 1964 Harlem Highrise a New York;

Moshe Safdie: 1967 Habitat a Montreal;

Richard Buckminster Fuller: 1967 Padiglione USA per l’esposizione universale di Montreal;

R. Buckminster Fuller, S. Sadao e P. Floyd: 1968 Triton City;

Paolo Soleri: 1969 Arcology - The City in the Image of the Man; 1969 Arcosanti;

Lucien Kroll:  1970 La Maison médicale, il MéMé, a Bruxelles;

John M. Johansen: 1971 Mummers Theater a Oklahoma City;

Tomaso Badano e Lionello Calza: 1974 Insediamento Universitario a Valletta Puggia, Genova;

Weber, Brand & Partners: 1969-1982 Centro Universitario Opedaliero ad Aquisgrana;

Renzo Piano e Richard Rogers: 1971-1977 Centro Culturale Georges Pompidou a Parigi;

Igino Cappai e Pietro Mainardis: 1967-1975 Centro di Servizi Sociali e Residenziali Est La Serra a Ivrea;

Kisho Kurokawa: 1972 Torre Nagakin a Tokyo;

Ralph Erskine: 1973-1978 Byker Wall Estate a Newcaste upon Tyne;

Alessandro Giorgi:  1978 Controcittà;

Richard Rogers: 1978-1986 Sede dei Lloyd’s a Londra.

E molti altri ancora tra progetti e realizzazioni. [2]

 

Questi sono scontatamente alcuni degli esempi di nuovi modelli insediativi – intesi o meno come “componenti, organismi e processi insediativi” - che hanno fatto e fanno tutti riferimento all’idea di città, almeno idealmente, poiché nei loro intenti programmatici la citta lineare, la città giardino, la città radiosa (in parte), la città vivente, e tutti questi modelli abitativi sopraelencati, sono tutte una negazione di ciò che viene inteso comunemente come “città”.

Tuttavia per veicolare il loro contenuto innovativo in modo immediato, tutti questi modelli si sono riferiti direttamente alla città, proponendo però un’altra idea di città, con proposte progettuali e modelli pensati appunto per porre rimedio ad un fenomeno considerato come negativo per l’individuo, e decadente: cioè inadeguato, inefficiente e non vitale per la società contemporanea.

Howard, Soria y Mata, Wright, e altri urbanisti del XX secolo, avevano tentato tutti di attuare la stessa cosa:  la dispersione, la diluizione, la dissoluzione di ciò che chiamiamo “città” nel territorio.  Ma ciò che volevano ottenere non era una semplice ridistribuzione della abitativa ed edilizia, più precisamente l’idea che era insita nei loro modelli insediativi era l’integrazione tra architettura e territorio, e quindi il ritorno alla natura e all’ambiente rurale.  Notiamo che quasi tutti questi teorizzatori proponevano modelli, processi insediativi validi per i popoli sedentari.  Facendo riferimento all'idea di città, essi tuttavia proponevano una nuova sistemica, una diversa concezione dell'abitare, una nuova forma di organizzazione dell'abitare, dello spazio, del territorio.

 

Alcuni di loro, come Wright e successivamente gli Archigram ed altri cosiddetti utopisti, avevano ben presente la possibilità di altre modalità abitative, come quella dei popoli nomadi e seminomadi.

Wright distingueva fra l’architettura della caverna e del muro tipica dei popoli sedentari, e l’architettura della tenda propria dei popoli nomadi.  La prima era secondo lui l’architettura dell’oscurità e della paura, la seconda quella della luce, quella più naturale e autenticamente umana.

Tuttavia le architetture di Frank Lloyd Wright non sono per nulla nomadi, né mobili come un tenda, cioè il caso limite ideale.

Il progetto architettonico più “nomade” che egli abbia mai ideato sono i progetti per la Colonia estiva Tahoe a Lake Tahoe in California, del 1922-1924, in cui parte delle abitazioni erano delle house-boats, delle case galleggianti sul lago.

Wright recuperava il nomadismo quando si trasferiva con tutti i membri del suo staff da Taliesin West a Scottsdale in Arizona a Taliesin East, a Spring Green, nel Wisconsin, ora per sfuggire all’estate rovente, e ora alla morsa del freddo invernale.[3]  Ma è difficile credere che questo maestro dell’architettura moderna non avrebbe potuto facilmente ideare una soluzione tecnica al problema del caldo o del freddo, se solo lo avesse ritenuto necessario.  La verità facilmente intuibile è che così Wright con queste sue migrazioni stagionali assecondava non solo la natura, quella esterna del ciclo delle stagioni, ma anche la sua natura, la nostra natura umana insomma. Siamo appunto una specie vivente fatta per muoversi, non per avere una sedia incollata a noi tutto il giorno.  Ron Herron e gli Archigram si riferivano invece più direttamente al nomadismo con le loro città che camminano, le Walking Cities.

 

Chiunque abba mai passato in rassegna i modelli abitativi dal trattato di Vitruvio, il “De Architectura”, fino ad oggi – cioè dai trattati del Rinascimento, fino al Movimento Moderno e oltre [4] –, si può rendere conto che in essi vengono esplicitamente o implicitamente considerati solo tre tipi di habitat:  quello naturale, quello rurale e infine quello urbano.

Perché il nomadismo viene escluso a priori?

Nella città ideale di Les Chaux di Ledoux non c’è traccia di nomadismo;  e nemmeno nella Città Industriale di Garnier:  perché?

Tutti questi progetti sono stati da più parti definiti “utopici” o più bonariamente “ideali”, cioè irrealizzabili.

Se gli architetti che li hanno proposti avessero veramente voluto proporre una utopia, avrebbero ideato appunto qualcosa di simile al nomadismo, o progettato qualche città volante fra le nuvole o nei pressi di Marte.  Invece non c’è traccia di città tra le nuvole. 

Tutti i teorizzatori di modelli di habitat innovativi hanno invece cercato e trovato soluzioni realistiche.

Persino per quanto riguarda gli Archigram, non si possono dimenticare e liquidare, così come è stato fatto, tutti i loro progetti abitativi bollandoli come “utopici” solo perché fra essi figuravano le Walking Cities.

Invece è proprio quello che è stato fatto.  A partire dagli anni Ottanta ci si è orientati verso la definizione di tutto il corpus dei progetti innovativi di habitat come di “immaginazione megastrutturale” e di “trionfo dell’utopia”.

Gli ideologi dell’architettura di allora, negli Anni ‘80, cioè i vari Aldo Rossi, Leon e Rob Krier, Philip Johnson, Paolo Portoghesi, riuscirono a porre l’accento sul recupero superficiale di una tradizione architettonica classica che non era più recuperabile.  Dimenticando che esiste l’automobile, e non ci sono più le carrozze con i cavalli.

Anche se la tendenza dell’architettura Postmodena non è più in auge da più di un decennio, soppiantata dalla tendenza del Decostruttivismo – anch’esso ormai sparito dalla circolazione e dissoltosi nel nulla –, un esito certo queste tendenze, che neanche sono mai state dei veri Movimenti, lo hanno ottenuto:  da circa trent’anni a questa parte nessuno osa più mettere in dubbio la realtà che ci circonda.

 

Tutto va bene a bordo del Titanic finché la nave non affonda, ma poi la nave affonda.

Come società e come individui ci stiamo trasformando in macchine, ovunque prevale la logica del particolare, del “pezzo”.  Non c’è più una visione d’insieme, cioè di relazioni tra le parti.   Il particolarismo deve avere un limite, non si può costruire una società senza una “visione”.

Addirittura fra la critica architettonica si sta facendo strada la convinzione che bisogna smetterla di cercare una direzione per l’architettura:  è il trionfo del caos e dell’anarchia, è il trionfo della rinuncia ad essere, come umanità, artefici del nostro destino e coesi come collettività.

 

A tutti interessa il particolare, nessuno è responsabile di nulla.  Sostituire un edificio con un altro, questo sì migliore:  più efficiente dal punto di vista del contenimento energetico, con una forma inusitata veramente originale, in cui sono stati usati materiali recuperati da qualche parte accanto a materiali mai visti prima, per poi scoprire che ha avuto dei costi proibitivi.

Nell’insieme tutto rimane inalterato.  Perché?

Perché non c’è una visione d’insieme;  l’architettura da più di vent’anni a questa parte è come una nave senza timone.  Perché?  Gli addetti ai lavori si sono convinti o fanno finta che l’architettura si possa fare con la sola tecnologia, cioè che l’architettura sia solo tecnologia.  E allora, perché tutto questo?

 

Da tempo la committenza non è più costituita da re, nobiltà, clero.  Non ci soccorrono più il dittatore, l’autocrate, una oligarchia o un governo di pochi.

Ciononostante l’architettura della cosidetta democrazia non trova tuttora una forma di attuazione diversa dai vecchi modelli millenari fallimentari, né l’architettura ordinaria - quella di tutti i giorni che la maggior parte della gente si deve sorbire -, ha ancora trovato una “forma” degna di essere definita come “umana”, cioè a misura d’uomo.

 

Siamo in piena Democrazia, dicono, ma si tratta di una democrazia in cui la committenza delega poco o nulla all’architetto o al progettista in genere.

Per esempio, quando andiamo dal dottore per curarci deleghiamo ad esso il compito di curarci.  In genere, qualsiasi cura egli ci proponga noi la seguiremo, altrimenti ci saremmo rivolti ad una altro medico, o non ci saremmo rivolti ad alcun medico.

Invece oggi la gente quando si rivolge all’architetto pare quasi che stia richiedendo una qualche merce.  Appunto questo succede, perché la gente pensa oggi all’architettura come ad un fatto meramente tecnico ed economico.  Il trionfo del mercantilismo, logica cui nemmeno l’architettura può sfuggire.

 

 

Questo è il risultato di una trentennale assenza di una visione, in architettura.

L’architettura in generale ha perso l’anima:  ha perso la bellezza, ha perso il senso dello spazio, ha perso il valore dell’abitare.  Oggi il valore dello spazio dell’architettura è il suo valore al metrocubo. Proliferano le zone residenziali esclusive.  Quando l’ultimo ettaro di terreno sarà stato edificato avremo di nuovo ottenuto proprio il suburbio dal quale stavamo fuggendo.

 

Ad Oriente, nella primavera del 2001, un ministro del Governo della Cina affermava che la città è il migliore sistema insediativo possibile, cioè il sistema più efficiente per alloggiare milioni di persone.[5]  Ad Occidente, Marc Weiss, presidente dell’Istituto per lo sviluppo urbano globale, di Praga, diceva tempo fa che “le città sono le fondamenta su cui si costruisce il benessere”.  Sicuramente invece la città è il sistema più efficiente per impoverire territori lontani da essa e sprecare risorse senza neanche renderse conto.

Forse la città sarà pure l’habitat più concreto ed immediato da realizzare, ma solo fino a domani, perché dopodomani comincerà ad essere molto costoso mantenere in vita una cosa come le città, dove lo spreco è la prassi.  Il vicino di casa ha la piscina?  Bella idea, la voglio anch’io. Risultato:  una distesa di piscine proprio dove l’acqua è una rarità:  vedi Las Vegas in pieno deserto, oppure vedi India, dove l’acqua dolce non abbonda affatto dappertutto, ma dove i nuovi ricchi si devono dare un tono.  E soprattutto queste piscine sono ben esposte al sole, altrimenti come farebbe l’acqua a non evaporare?  Una combinazione micidiale di emulazione, conformismo, status symbol e totale assenza di buon senso tipica dei cosiddetti “cittadini”.  Almeno tutta questa acqua dolce sprecata servisse, che ne so, a climatizzare in modo passivo in qualche modo le abitazioni, cosa che sarebbe possibile se fosse posta al coperto, o come una sorta di cisterna sotterranea seminterrata o al di sotto dell’abitazione, utilizzabile lo stesso come piscina, tanto per dirne una.   Ma no:  deve essere ben visibile e pronta all’uso per farci il bagnetto una volta l’anno.  Il massimo grado di cretinismo collettivo planetario.

 

Il lettore dirà, sì, va bene dirne di tutti i colori sugli arcinoti difetti delle città contemporanee, ma quand’è che veniamo al dunque e parliamo di questi modelli abitativi innovativi degli Anni ’70?

Un attimo di pazienza, che ci arriviamo.  Prima, ritorniamo di nuovo a parlare del fenomeno dell’urbanesimo.

 

Ritornando all’habitat urbano, lì o qui – a seconda di dove state in questo momento, si produce pure l’impalpabile, si fanno le scelte che contano, si organizza, si fa politica, si offrono servizi, si gestisce l’informazione, si movimentano e soprattutto si consumano a ritmi vertiginosi beni e servizi, come abbiamo ricordato.  In questo tipo di habitat è più evidente qual’è il livello di manipolazione umano della natura.

Nella città il grado di manipolazione dell’habitat naturale da parte della specie animale homo sapiens è ovviamente massimo.

Se non fosse per la presenza di un corso d’acqua, di una collina, del mare, del cielo, o di un boschetto, si potrebbe dire che una città è del tutto indifferente alla terra che la sostiene.  Tuttavia per esistere la città abbisogna di attingere, organizzare e movimentare continuamente le risorse degli altri due tipi di habitat, quello naturale e quello rurale.

Allora se pensiamo alla città come processo naturale, ci rendiamo conto che essa è un'entità, una specie con una storia più che millenaria alle spalle.

Tuttavia, nonostante il fenomeno città esista da millenni, ciò è poco più di niente in termini temporali rispetto alla storia dei processi organici ed inorganici naturali.

La Terra si stima abbia circa 5 miliardi di anni, anche se storicamente vediamo che con il susseguirsi delle scoperte scientifiche e rispettive prove, l'età della Terra viene sempre più retrodatata.[6]  I banchi di stromatoliti, superstiti delle prime comunità viventi sulla Terra, esistono da 3 miliardi e mezzo di anni, e ancora oggi si possono trovare nella Shark Bay in Australia.[7]  Il limulo, un animale che vive sul fondo marino, detto volgarmente “funziona”, esiste da 300 milioni di anni, cioè da 300 milioni di anni a questa parte addirittura non ha mai cambiato aspetto.  Gli squali si stima che esistano da più di 400 milioni di anni.[8] L’uomo, dai primi ominidi all’attuale Homo sapiens pare che ci sia sulla faccia della Terra da oltre 4 milioni di anni.[9]

 

Quindi, se partiamo dall’assunto che qualsiasi prodotto della società e delle attività umane sia un fatto naturale  (senza sottilizzare tra artificiale e naturale, o se sia cosa buona o piuttosto cosa cattiva quello che fa e produce l’umanità), e guardiamo al fenomeno dell’urbanizzazione come ad un processo naturale, ci rendiamo appunto conto che dal punto di vista evolutivo la città, l’habitat-città, è un fenomeno del tutto insignificante rispetto ai processi evolutivi di altre entità, quelle naturali, perché essa si colloca in un periodo temporale estremamente ristretto, praticamente dall’epoca dell’invenzione dell’agricoltura in poi.  Prima di allora, a milioni di anni dalla sua comparsa sulla faccia della Terra come specie vivente, nemmeno l’umanità aveva bisogno di queste cose che chiamiamo città.

 

[ omissis ]


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Michele Leonardi - Verso un Altro Habita[...]
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[1] Vedi ad esempio la vasta ed esauriente analisi e sintesi di K. Lynch, “A Theory of Good City Form”, Mit Press, Cambridge-London 1981, Edizione italiana: “La qualità della forma urbana”, ETAS Libri 1990,

 

[2] L’arco temporale è indicativo, perché in questa sede per “modelli abitativi degli Anni ‘70” si vuole indicare genericamente l’interruzione a livello mondiale della ricerca e della sperimentazione architettonica avvenuta all’inzio degli Anni ’80 con il disimpegno sugellato dalla tendenza Post Modern;  ma è ovvio che questa è una schematizzazione generica, poiché tanti progettisti hanno del tutto ignorato il Post Modern e hanno continuato a progettare e realizzare ciò in cui credevano.  Del resto, nemmeno qui si vuole demonizzare il Post Modern, né chicchessia. L’integralismo e l’omologazione non ci riguardano. Stiamo solo cercando di capire se c’è ancora qualche speranza di uscire dalla logica delle città “lastra”, come le chiamava Frank Lloyd Wright.

 

[3] In “Frank Lloyd Wright Architetto:  1867-1959”, a cura di T. Riley e P. Reed, con saggi di A. Alfonsin, W. Cronon, K. Frampton, T. Riley e G. Wright, Electa Ed., Milano 1994.

 

[4] Vedi ad esempio sempre di K. Lynch, “A Theory of Good City Form”, Mit Press, Cambridge-London 1981, Edizione italiana, “La qualità della forma urbana”, ETAS Libri 1990,

 

[5] Più recentemente, pare che abbiano cambiato in una certa misura opinione sulle città, affermando che non è il modello abitativo migliore possibile e che necessita di correttivi; purtroppo non mi ricordo dove ho letto questa notizia, ma se fosse vera, dimostrerebbe che il tanto criticato governo cinese (definito come "totalitario", ma vorrei vedere questi criticoni come saprebbero governale loro un miliardo e mezzo di persone) è mille volte più dinamico e moderno dell’obsoleta classe politica occidentale, la quale in generale il problema neanche se lo pone!  Semplicemente, quando scoppiano disordini e sommosse (nell’ordine, anni fa’: a Los Angeles, a Parigi, a Londra) alle periferie delle metropoli, riducono tutto ad una questione di emerginazione sociale dei sobillatori.

 

[6] Da circa un secolo a questa parte la maggioranza degli studiosi concorda su un’età di 4.700 milioni di anni, benché le rocce più antiche risalgano al massimo a 4.050 milioni di anni fa.

 

[7] “Gli stromatoliti sono composti da un guazzabuglio di specie.  In un metro quadrato ve ne possono convivere fino a 5 miliardi, legate da un rapporto simbiotico che tiene unita la comunità.”  Liberamente tratto da “L’alba della vita”, articolo di Richard Monastersky nel “National Geographic”, edizione italiana del Marzo 1998.

 

[8] Da un articolo di Gary W. Litman, “Gli squali e l’origine dell’immunità nei vertebrati. Con la loro storia evolutiva di circa 450 milioni di anni, gli squali ci consentono di cogliere i primi svilupppi del sistema immunitario”, contenuto in “Le Scienze” n° 341 del Gennaio 1997, edizione italiana di Scientific American.

 

[9] “Le scoperte paleontologiche degli ultimi anni hanno portato a 15 le specie di ominidi conosciute”, afferma Ivan Vispiez in un suo articolo comparso sul periodico italiano “Focus”.  Vedi anche: “Tutti gli antenati dell’uomo” di Ian Tattersall, in “Le Scienze”, n° 379 Marzo 2000; inoltre: “il possibile ominide più antico sarebbe l'Ardipithecus ramidus, rappresentato da fossili frammentari provenienti dal sito di Aramis, in Etiopia, di 4,4 milioni di anni”.

[ omissis ]

 

 

 

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ACKNOWLEDGMENTS

Even the longest journey begins with a first step! Systemic Habitats is on line since the 18th of May 2012. This website was created to publish online my ebook "Towards another habitat" on the contemporary architecture and urbanism. Later many other contents were added. For their direct or indirect contribution to its realisation strarting from 2012, we would like to thank: Roberto Vacca, Marco Pizzuti, Fiorenzo and Raffaella Zampieri, Antonella Todeschini, All the Amici di Marco Todeschini, Ecaterina Bagrin, Stefania Ciocchetti, Marcello Leonardi, Joseph Davidovits, Frédéric Davidovits, Rossella Sinisi, Pasquale Cascella, Carlo Cesana, Filippo Schiavetti Arcangeli, Laura Pane, Antonio Montemiglio, Patrizia Piras, Bruno Nicola Rapisarda, Ruberto Ruberti, Marco Cicconcelli, Ezio Prato, Sveva Labriola, Rosario Francalanza, Giacinto Sabellotti, All the Amici di Gigi, Ruth and Ricky Meghiddo, Natalie Edwards, Rafael Schmitd, Nicola Romano, Sergio Bianchi, Cesare Rocchi, Henri Bertand, Philippe Salgarolo, Paolo Piva detto il Pivapao, Norbert Trenkle, Gaetano Giuseppe Magro, Carlo Blangiforti, Mario Ludovico, Riccardo Viola, Giulio Peruzzi, Ahmed Elgazzar, and last but not least Warren Teitz.  M.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

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