IL RITORNO ALLA
NATURA
Verso un altro habitat - Vol. I, Cap. 7
VOLENDO
DEFINIRE
dei nuovi modelli abitativi non si può prescindere dal sentimento del ritorno alla natura.
Ciò non ha nulla a che fare con il grano geneticamente non brevettato di un qualche nostro avo contadino. L’avo contadino, seppure non godesse dei benefici della scienza e della tecnica moderna, vivendo con alterne vicende un’esistenza fatta di stenti e continui sacrifici, bene o male viveva a contatto con la natura. Era integro.
Pure i nostri antenati erano integri spiritualmente. Le loro sofferenze e mutilazioni erano soprattutto fisiche.
Invece oggi per chi vive nel Nord del Mondo, quello ricco e ben sviluppato, economicamente, le sofferenze e le mutilazioni sono quasi tutte quelle spirituali, psicologiche.
Nel Sud del Mondo – quello povero – può accedere anche di peggio di quanto accade a noi ed è accaduto ai nostri avi. In esso può succedere di dover sperimentare proprio tutto: la menomazione fisica e quella psicologica, come patire la fame, le malattie, non avere un tetto, patire la violenza lungo le strade di una squallida metropoli, o morire di droga in una sudicia bidonville. Cose che succedono, ma in misura molto minore, anche nell’altra metà del mondo.
Cosa e quanto si può fare in architettura per tutte queste persone?
Come si fa a recuperare il naturale, lo spontaneo, ciò che è autenticamente nostro, realizzando un habitat voluto da noi? Come si recupera – anche solo in parte -, ciò che era la tradizione, e che ancora prima si è perso per sempre?
Non è l’idea di un ritorno letterale quella che ci interessa, con tanti alberelli e fiorellini sparsi qua e là. Guardando ai progetti di rinnovo urbano di Luigi Pellegrin vediamo che in essi la presenza della natura è data molto semplicemente dalla centralità dell’uomo, bastano anche i soli spazi esclusivi per i piedi, i nostri.
La separazione tra ambiti pedonali e ambiti dei mezzi meccanici deve essere netta.
In essi la gente è protagonista, potendosi muovere in un susseguirsi di spazi pensati per l’uomo e non per gli oggetti, ove tutte le attività possono trovare luoghi funzionalmente appropriati, secondo una caratterizzazione che non è separatrice, ma fonte di maggiori interazioni: luoghi di scambio e luoghi di incontro.
In una scena urbana che vuole essere il luogo umano per eccellenza, natura artificiale, ma sempre filiazione di madre natura, non c’è spazio per la promiscuità con le macchine. Le macchine qui servono l’uomo essendo integrate nell’architettura. Integrate nell’architettura non possono invadere il nostro spazio, possono solo restituircelo.
Lo spazio urbano liberato dai tempi e i modi delle macchine ci riporta così ad altri ritmi di vita. Così non possiamo più farci scudo dagli altri con oggetti e macchine, dovendo chiedere a noi stessi cosa vogliamo, cosa siamo venuti a fare in città. Per uno scambio? per un incontro? per sentirci parte di una comunità, di una società?
Sì, credo che sia possibile ritrovare la natura, la nostra natura, anche nella vecchia idea di città.
Nel confronto con l’era delle macchine e dell’informatica, nei tempi stretti dei movimenti di persone e cose, questa vecchia ma incorruttibile idea deve trovare nuova forma per potere sopravvivere.
Nelle forme delle città europee del XV secolo dopo Cristo si concretizza il primo revival della storia dell’architettura: è il Rinascimento. Un linguaggio architettonico morto da secoli viene letteralmente resuscitato, prendendo a modello le rovine e le spoglie dell’architettura dell’Impero Romano, fino a produrre nella sua fase più matura, di lì ad un secolo, un nuovo linguaggio: quello dell’architettura barocca. [1]
Nei secoli seguenti, con la nascita dell’archeologia moderna e la riscoperta del mondo greco, si affermava un nuovo revival, quello dell’architettura neoclassica, con un successivo avvicendarsi di stili sempre più formali, dall’imitazione di quella greca ritenuta inizialmente più genuina e pura di quella romana, fino ad arrivare al parossismo dell’architettura eclettica: stile dorico, corinzio, tuscanico, egizio, assiro-babilonese, e poi neobarocco, e neogotico!
A questo punto la disintegrazione del linguaggio dell’architettura era ormai totale: una forma valeva l’altra per contenere una funzione. Lo stile tuscanico da usare per gli edifici destinati alle banche, quello romanico per gli uffici, o neogotico, magari per un ponte sospeso oppure per una stazione ferroviaria.
Si trattava di attingere da un repertorio di stili da applicare a piacere secondo l’occasione. Persino la purezza della Sagrada Familla a Barcellona, di Antoni Gaudì, genuina e vitale architettura gotica perpetuata nel futuro, sarebbe diventata l’eccezione che conferma la regola. Escludendo rare eccezioni di integrità del linguaggio rinnovato in modo personale, come appunto la Sagrada Familla a Barcellona, il Duomo di Milano e il Sacro Cuore di Parigi, il linguaggio dell’architettura era diventato, come il latino, quello di una lingua morta.
Nel 1851, dopo oltre un secolo di finzione e compromessi l’architettura tornava ad esprimere l’ambizione ad essere qualcosa di più di ciò di cui è materialmente composta, accogliendo insieme il tangibile e l’incommensurabile. Spazio, persone, macchinari, prodotti, musica, venivano ospitate nei grandi spazi del Crystal Palace di Londra, prima ad Hyde Park e poi a Sydenham.[2] Per ironia della sorte, o forse proprio per questo motivo, Paxton, l’architetto del Palazzo di Cristallo, non era un architetto d’accademia o un ingegnere, egli “nasceva” invece come giardiniere, per poi diventare costruttore di serre.
Con la Torre Eiffel, del 1889, l’Architettura si ergeva con slancio verso il cielo dominando i tetti di Parigi,[3] al di sopra di tutto ciò che era stata nei secoli passati, incluse le torri gemelle della Cattedrale di Notre-Dame.
Fra la distesa di edifici ai suoi piedi ben poco sarebbe cambiato fino ai giorni nostri. Nel futuro uno strano figlio di quella Torre di Ferro, chiamato Centre Culturel Georges Pompidou, avrebbe ancora turbato il sonno dei muri di mattoni e di cemento.
Dopo qualche decennio il sogno e la speranza di poter liberare l’architettura dalla schiavitù del muro, da questa membrana protettiva dal mondo esterno che ci fa scudo da esso rendendoci prigionieri, diveniva realtà nel 1929 a Barcellona con il Padiglione tedesco di Ludwig Mies van der Rohe, e ancora di più con la Casa sulla Cascata di Wright del 1936.
La Fallingwater House a Bear Run in Pennsylvania, dell’architetto americano Frank Lloyd Wright testimonia ancora ai nostri giorni quale sia la sostanza dell'idea di integrazione nella natura.
Questo edificio non è espressione di un letterale ritorno alla natura.
Nello stesso grande paese della Casa sulla Cascata di Wright, negli U.S.A., accanto agli stanziali convivono dei seminomadi, chi per libera scelta o purtroppo chi per ristrettezze economiche, cioè il popolo delle roulottes.
Forse si può pensare che il ritorno alla natura si possa attuare semplicemente calando un contenitore qualsiasi come una roulotte in una scena naturale.
Ma una roulotte (o un camper) è più una macchina che una casa, non è radicata nemmeno temporaneamente al terreno, il suo attacco a terra è la ruota.
Una roulotte è diversa dalla capanna o dalla tenda dei popoli nomadi del deserto del Sahara, delle steppe della Mongolia, della tundra siberiana.
Seppure temporaneamente, la tenda e la capanna si attaccano saldamente al suolo,[4] lo rivendicano come proprio.
La Casa sulla Cascata rappresenta invece per la nostra civiltà – quella scritta dai popoli stanziali - la distruzione della millenaria prassi dell’edificio scatolare, l’abbattimento di quella barriera che si frappone tra il mondo interno deputato alla vita domestica e quello esterno più vasto di una natura ora benigna e ora ostile, ma che ci ha sempre nutrito e soprattutto ci ha generato.
Le mute parole pronunciate da Frank Lloyd Wright con la Casa sulla Cascata rappresentano ciononostante ancora niente di più che un sogno e una speranza, rimasti una rara testimonianza di architettura organica: l’architettura ordinaria è tuttora indietro di millenni, nel migliore dei casi l’architettura residenziale odierna è pura tecnica, adeguamento a degli standard, più confortevole, quantità.
Sì, è vero, prima e dopo la caduta del Muro di Berlino altri “muri” sono stati abbattuti:
nel 1972 con lo Stadio Olimpico di Monaco di Baviera, di Günther Benisch, Frei Otto e Jörg Schlaich; nel 1973 con la Sydney Opera House di Jorn Utzon; nel 1959 con la Beth Sholom Sinagogue a Philadelphia dello stesso Wright,[5] il quale ha realizzato la sua idea di città vivente e dispersa costellando un territorio vasto come gli Stati Uniti di architetture uniche e irripetibili. “Irripetibili” proprio perché non-scatole. “Architetture non ripetibili” perché quest’uomo ha concretizzato a partire dalle sue prarie houses la possibilità di fare case “ordinarie” con una sistemica che non conosce la clonazione ed è allergica al manierismo.
Affermare che la Casa sulla Cascata è un capolavoro opera di un genio non ci aiuta a pensare ad un habitat a noi più congeniale. Fino ad oggi l’idolatria verso i maestri di tutti i tempi ha prodotto storicamente null’altro che mediocri manierismi. In questo momento dovrebbero nascere milioni e milioni di geni tutti in una volta, e noi non possiamo aspettare in eterno un simile miracolo che non si avvererà mai.
Viceversa, in una possibile presa di posizione ambientalista di carattere integralista potremmo valutare per assurdo la Casa Kaufmann a Bear Run come un’azione di deturpamento della natura di quei luoghi, un esempio da non imitare. Come a dire che le caratteristiche case di Amalfi e Positano deturpano la Costiera Amalfitana come fossero favelas, quando invece la sostanziano.
Senza Venezia la Laguna che la circonda sarebbe forse un luogo meno antropizzato, forse più naturale e più uguale a tante altre lagune incontaminate, ma non dobbiamo dimenticare che Venezia e Laguna sono una cosa sola.[6] Togliamo a Parigi la Tour Eiffel: non commettiamo forse un delitto? Eppure non sono solo i parigini molto affezionati a quell’effimera struttura di ferro che dopo un secolo continua a sfidare il tempo.[7] Come facciamo quindi a decidere quando e quale architettura merita di deturpare o alterare il paesaggio naturale preesistente?
Questo fraintendimento, che l’opera dell’uomo sia artificiale, al di fuori della natura, nasce dalle risposte che la società moderna, quella occidentale soprattutto, si è data per giustificare il proprio successo evolutivo ed i primati raggiunti rispetto ad una natura per millenni ostile.
Questo è quanto affermava il sociologo francese Serge Moscovici nel suo libro ironicamente intitolato “La società contro natura”. Moscovici ha analizzato le motivazioni che hanno portato l’umanità, cioè le società civili, a concepire sé stesse e l’uomo come entità separate dalla natura, quando appunto invece uomo e società sono nella natura, parte di essa.[8]
Non considerare la società come “natura” è come addossarsi un peccato originale aggiuntivo che nessuna entità divina ci ha mai assegnato, e non ci aiuta di certo a discernere meglio tra ciò che è bene e ciò che è male.
Dire che “naturale” è sinonimo di “bene” neanche. Un virus è naturale e ci può uccidere. Un leone è tanto naturale, ma anche lui ci può uccidere. Invece per noi uccidere un animale per cibarci della sua carne è un bene, altrimenti non potremmo vivere. Portare all’estinzione una specie vivente come le balene per farci profumi o credere di poter curare l’impotenza maschile con il corno di rinoceronti sterminandoli per sempre, [9] forse non è né un bene né un male, perché è solo stupidità collettiva ed individuale e grandissima abominevole ottusa ignoranza. La distinzione tra naturale e artificiale non ci aiuta quindi ad orientarci, a distinguere tra utile ed inutile.
Se avessimo chiesto al filosofo greco Socrate una disanima sull’artificiale e sul naturale e in quale modo ritornare alla natura, egli avrebbe probabilmente capovolto la questione. Perché chiedere agli altri ciò che già sappiamo, istintivamente?
Non abbiamo nessun bisogno di giustificare con un qualche costrutto razionale la necessità di un’architettura in simbiosi con natura, cioè con il mondo naturale e con il nostro essere.
Non esiste una regola aurea per cui si possa affermare che Fallingwater, la Casa sulla Cascata di Wright, sia natura essa stessa. Certamente non sarebbe alla portata di tutti. Ma qui non conta la quantità, sono altre le grandezze in gioco.
Essendo noi parte della natura, dovremmo essere in grado di trovare da soli la strada maestra. Questo senso di appartenenza è innato in noi, e quindi va solo riscoperto.
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[1] Sull’architettura barocca come linguaggio architettonico “autonomo” e non più semplice revival, vedi "Roma Barocca" di Paolo Portoghesi, Roma 1966; "”Architettura Barocca" di Christian Norberg Schulz, Milano 1971; "Architettura Tardobarocca " sempre di Christian Norberg Schulz, Milano 1972.
[2] Al termine dell’Esposizione Universale (cioè comprendente tutti i tipi di prodotti dell'industria, nonché internazionale e con ricchi premmi onde attirare il maggior numero di espositori da tutto i lmondo) del 1851 ad Hyde, Joseph Paxton riuscì a trovare i fondi economici necessari al trasferimento del Crystal Palace nella Collina di Sydenham, a sud di Londra. Il Palazzo di Cristallo sarebbe stato utilizzato a partire da allora fino al 1936, anno del suo disastroso incendio, come una grande struttura multifunzionale destinata a concerti musicali, spettacoli di intrattenimento, esposizioni museali, giochi d’acqua e messa a dimora di rare specie vegetali. Fonti, vedi:
- Giovanni Brino, “Crystal Palace: cronaca di un’avventura progettuale”, Sagep, Genova 1995;
- Michal Forsyth: "Edifici per la musica. L'architetto, il musicista, il pubblico dal Seicento ad oggi", Cap. 4: "Musica in grande", 352 pgg., Nicola Zanichelli, Bologna, 1987;
- Nikolaus Pvsner: "Storia e caratteri degli edifici", Cap. XV: "Mercati coperti, serre ed edifici per le esposizioni", 393 pgg., Fratelli Palombi, Roma, 1986;
- Nigel Hawkes: "Atlante delle meraviglie costruite dall'uomo", "Il Crystal Palace: una serra gigantesca", Istituto Geografico de Agostini, Novara, 1991;
- Robin Middleton e David Watkin: "Architettura dell'Ottocento", Mondadori Electa, 1989.
[3] Sulle vicende della Torre Eiffel e sulle reazioni di scetticismo dei parigini al tempo della sua costruzione si vedano ad esempio di Nigel Hawkes, “Atlante delle meraviglie costruite dall’uomo”, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1991; oppure di Leonardo Benevolo, “Storia dell’architettura moderna”, Editori Laterza, Bari 1981. Vedi anche, a cura di Bertrand Lemoine: "Gustave Eiffel: The Eiffel Tower, la Tour de Trois Cents Mètres", Taschen, Köln, Cologne, 2016.
[4] Sull’attacco a terra degli edifici vedi: “Al piede dell’architettura” di Paolo Giambartolomei, Roma 1998,
[5] Si ritiene fondamentale la lettura del “Linguaggi dell’architettura contemporanea” di Bruno Zevi, Torino 1993.
[6] In realtà in questi luoghi lagunari l’interazione tra le popolazioni locali e l’ambiente è, o meglio, era, un processo che durava da secoli, per cui non è possibile distinguere tra artificiale e naturale; in altre parole, abbandonata a sé stessa e abbandonate le tradizioni che hanno finora permesso un equilibrio dinamico tra le attività umane e quell’ambiente particolare, finisce che la laguna va in malora, prima ancora di un aumento o meno del livello del mare.
[7] Costruita in poco più di un anno, è noto che per la Torre Eiffel era stata programmata la sua demolizione subito dopo l’evento dell’Esposizione Universale di Parigi del 1889, in occasione della quale era stata eretta.
[8] Serge Moscovici: “La società contro natura”, Ubaldini Editore, Roma 1973.
[9] Ricordiamo brevemente che i corni di rinoceronte sono fatti di cheratina, la stessa sostanza organica di cui sono fatte le nostre unghie!
S.I.A.E. tutti i diritti riservati © Dott. Arch. Michele Leonardi
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