CHE COS'E' UN
HABITAT
Verso un altro habitat - Vol. I, Cap. 6
CHE COS'E'
UN HABITAT?
“Habitat” è una parola moderna che deriva dal latino “habitare”, cioè “vivere”: indica l’ambiente in cui una determinata specie può vivere. [1] Dal punto di vista biologico gli habitat esistenti nella biosfera sono ancora molti, sempre più compromessi e in pericolo, relegati nei parchi protetti, nelle riserve naturali e negli spazi meno accessibili e più inospitali del pianeta.
Qui invece ci interessa in particolare il significato che la parola habitat può assumere nel campo dell’architettura come strategia di lungo termine, che non comporti, come tante ben note strategie di breve periodo, la distruzione dell’ambiente quale inevitabile passaggio obbligato e conclusione.
Tenendo presente queste considerazioni è immediato immaginare riduttivamente almeno almeno tre tipi di habitat, secondo una schematizzazione del tutto arbitraria.[2]
- Il primo è l'habitat naturale, quello "incontaminato" (deserti, oceani, ghiacciai, catene montuose) o quasi dalla presenza dell’uomo moderno e delle sue tecnologie devastanti, come potevano esserlo la foresta pluviale per un indio dell’Amazzonia o la banchisa polare per un eschimese prima delle invasioni ed immigrazioni europee; e in certi casi come può ancora esserlo l’outback, l’entroterra dell’Australia, per gli aborigeni australiani. [3] L’habitat dei popoli nomadi e seminomadi coincide in gran parte ancora con quello naturale. Per questi popoli, costituiti da piccoli e grandi gruppi che si spostano continuamente e ciclicamente in un vasto territorio, l’habitat naturale coincide con l’architettura: per essi tutto l’ambiente che vedono nel loro sempre più limitato orizzonte è “architettura”.
- Il secondo tipo di habitat è quello massimamente artificiale e antropizzato, quasi totalmente alterato, plasmato dalle mani dell’uomo, ovvero la città, che abbiamo già chiamato in precedenza habitat-città. Questo è l’habitat proprio dei popoli sedentari. Fino ad oggi non è potuto esistere, né potrebbe esistere, senza attingere dagli altri due.
- Il terzo tipo di habitat, anche questo tipico dei popoli sedentari, i quali compongono attualmente la maggior parte della popolazione mondiale, è quello rurale - altrimenti denominato come “campagna” - che qui chiameremo indifferentemente habitat-rurale o habitat-semirurale, perché spesso in questi territori destinati all’agricoltura esiste una realtà produttiva industriale diffusa, costituita da tante imprese e realtà produttive artigianali.
L’oggetto primario delle nostre attenzioni e preoccupazioni è però l’habitat-città. L’habitat-semirurale è afflitto dalle stesse problematiche che caratterizzano le città, come l’assenza di nuclei territoriali che non siano le città stesse, come l’assenza di una organizzazione e un assetto territoriale organico, come l’aspetto spesso riscontrabile che assumono le zone rurali industrializzate, ovvero quello di una squallida periferia dilatata, del tutto simile alla frontiera di una qualsiasi metropoli.
In questa opinabile schematizzazione appena fatta, a tutt’oggi sappiamo che l’habitat-città e l’habitat-semirurale abbisognano l’uno dell’altro, sono interconnessi economicamente e in tutti i modi (il contadino ha bisogno dell’ospedale in città; la città dei prodotti agricoli) e insieme non potrebbero esistere senza attingere continuamente risorse (gas, petrolio, pesce, uranio, alluminio, carta, legname, ecc.) da quello primordiale, ossia dall’habitat naturale.
- Il quarto tipo di habitat ancora non esiste su scala planetaria.
Per esso non ha alcun senso distinguere tra ciò abbiamo chiamato habitat-città e habitat-semirurale. Forse per esso non ha nemmeno senso parlare di habitat-naturale, distinguendo tra naturale e artificiale, tra natura da una parte e architettura e società dall’altra.
Un modello esistente di altro-habitat, su cui ritorneremo, è dato dalle oasi del deserto del Sahara, in cui i popoli sedentari e i nomadi sono interconnessi e interdipendenti. Ma per il momento mettiamo da parte l’Oasi di Pietro Laureano come modello universale di sopravvivenza con il minimo dispendio di risorse, di tradizione plurimillenaria, perfetto adattamento in un ambiente estremo come i deserti del Nord Africa e del Medio Oriente.
Questo quarto tipo di habitat a venire, è qui definito come “un Altro Habitat”, inteso soprattutto come “Altri Habitat” (incluso il modello Oasi). Vale a dire che non esiste solo un modello realizzato o realizzabile di habitat alternativo, ma ne esistono e si potrebbero concretizzare molteplici distinte forme di habitat, diverse modalità abitative.
Un Altro Habitat è un modo di abitare sulla Terra diverso dal modello insediativo piatto, bidimensionale e statico proprio di quasi tutte le città moderne.
Esistono innumerevoli testimonianze contro la città. In molti si sono espressi contro questa entità, ma la città è sempre qui tra noi, anzi, le città-metropoli sono sempre più estese e caotiche e numerose.
C’è anche chi si schiera nettamente a favore delle città. Persone come Saskia Sassen sostengono che le metropoli come New York, Londra e Tokyo favoriscono non solo l’organizzazione socio-economica e gli scambi a livello mondiale, ma pure il decentramento. In sostanza queste megalopoli favorirebbero una differenziazione tra centri e periferie. [4] Non so se Sassen abiti in una di queste sterminate conurbazioni, né riesco a immaginare quale forma di piacere si possa provare a vivere ammassati l’uno all’altro su una terra tappezzata di automobili e asfalto. Forse il fascino della grande città è proprio questo caos e questa durezza, la sua forza è la concentrazione. Ma che tipo di concentrazione è? Monotona, piatta, sempre a 2 dimensioni. E poi ammassi di grattacieli, verticalità che si annullano l’una con l’altra, nell’illusione della conquista della terza dimensione dello spazio. Cosa non reale: anche questi edifici sono più piatti che mai, perché sono costituiti da una ripetizione indeterminata di piani tutti con la stessa funzione. E poi ci sono attorno gli sterminati suburbi a tappeto, orizzontali, fatti di case giardino strade automobili monotonia.
“Se tante persone vivono così strette l’una accanto all’altra vuol dire che si vogliono molto bene!” Più o meno è questa l’esclamazione del cowboy australiano protagonista di una commedia leggera di alcuni anni fa’, alla vista della grande città americana.
Guardando un’immagine aerea di una metropoli sterminata come Los Angeles, o una qualsiasi altra grande città del mondo, viene spontaneo pensare che la città sia un invincibile segno e riflesso della presenza della civiltà dell’uomo sulla faccia della Terra. Lo schema urbanistico stigmatizzato da Ippodamo da Mileto più di duemila anni fa è ridotto, nella maggior parte di queste megalopoli, a pura griglia di lottizzazione, priva di ambiti per il sociale.
Dobbiamo allora credere che questi habitat-città, queste croste bidimensionali siano l’espressione, o meglio ancora “il corpo” di qualsiasi società umana, un fatto spontaneo ed inevitabile così come l’edificio-scatola. Due modelli abitativi apparentemente pratici, tra i più economici, e “a misura d’uomo”.
Chiunque di noi ha familiarità con le immagini di queste megalopoli, per esperienza diretta poiché ci vive, per averle visitate, per averle viste migliaia di volte attraverso i mass media, al cinema, in televisione, in una fotografia.
Pensiamo allora ad una veduta notturna dei grattacieli di una qualsiasi grande città del mondo, e ai suoi anonimi sobborghi dati da una ripetizione di case indefinita, tutte che cercano a loro modo di sembrare diverse, con il risultato che sembrano tutte terribilmente uguali, se non sono già brutalmente tutte uguali sin dall’origine.
Parimenti immaginiamo di avere davanti a noi gli edifici residenziali a torre di Hong Kong, ad altissima densità abitativa, configurazione obbligata dovuta all’esiguità di spazio disponibile in quella città, ma comunque rappresentativi della normale prassi edificatoria in tutto il mondo.
Infine, guardiamo ad un qualsiasi grande porto, specialmente a quelli in espansione dell’estremo oriente, ma se ne vedono un po’ ovunque. Immaginiamo di vedere quindi il porto di Singapore con le banchine stracolme di container colorati, accatastati l’uno sopra l’altro, disposti in ordinate file.
Avendo presente tutto questo, possiamo dire che ciò che accomuna questi insiemi di edifici delle città e delle metropoli con l’insieme dei container, non è solo il fatto di essere spesso dei semplici contenitori, ma, per quel che ci interessa evidenziare, ciò che accomuna gli edifici delle metropoli ai container, è la loro organizzazione spaziale e funzionale.
I container sono contenitori standardizzati di merci, i quali, nel caso del porto, attendono di essere smistati verso altre destinazioni.
Il problema è che lo stesso trattamento, di puri oggetti accatastati l’uno accanto e sopra l’altro, viene riservato agli edifici cittadini, cioè ai componenti dell’habitat “città”.
E’ lo stesso livello di organizzazione che in genere riscontriamo in una libreria, un cimitero, in un parcheggio di automobili.
L’appiattimento culturale e il conformismo mondiale fanno sì che questo modo di abitare la Terra appaia come un destino ineluttabile per l’uomo contemporaneo.
Fortunatamente per l’universo l’umanità attualmente non è in grado di viaggiare nello spazio interstellare della Via Lattea, per sciamare come delle locuste affamate e andare ad appestare altri pianeti, soffocandoli con le nostre sciatte croste che chiamiamo metropoli.
Le cavallette del film Indipendence Day, per chi l’ha visto e se lo ricorda ancora, non sono gli alieni invasori, ma siamo noi con i nostri livelli insostenibili di consumo parossistico di qualsiasi cosa sia consumabile.
[ omissis ]
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[1] “Habitat”: voce latina, letteralmente “egli abita”, dal verbo “habitare”: in biologia è il complesso dei fattori fisici e chimici che caratterizzano l’area e il tipo di ambiente in cui vive una data specie di animale o di pianta; figurativamente: ambiente particolarmente congeniale ai propri gusti, aspirazioni, e simili; in urbanistica si intende come lo spazio attrezzato in cui l’uomo abita. Citazione liberamente tratta dal “Vocabolario della lingua italiana” di Nicola Zingarelli, Zanichelli Editore, Bologna 2001.
[2] Si tratta di una astrazione funzionale al ripensamento delle nostre modalità abitative, senza alcun intento di distinzione scientifica. Alla stessa stregua dell’illusoria distinzione tra articiale e naturale, parimenti qui si distingue tra popolo nomade e popolo sedentario. Infatti intere porzioni di popoli sedentari migrano da sempre in massa, così come esiste la realtà delle migrazioni stagionali delle vacanze di massa. Persino i Gitani non sono riconducibili a queste due categorie qui di seguito enucleate, dal momento che parte di essi sono in realtà sedentari, mentre quelli nomadi si spostano in un habitat del tutto antropizzato.
[3] Sugli aborigeni australiani e il loro “strano” rapporto con la loro terra, di Bruce Chatwin, “Le vie dei canti”, Adelphi, Milano 1988. Chatwin si chiede: perché i popoli nomadi tendono a considerare il mondo come perfetto, mentre quelli sedentari cercano sempre di trasformarlo? La risposta implicita è che essere stanziali non è nella nostra natura, né è scritto nel nostro corpo.
[4] Saskia Sassen: “Città globali: New York, Londra, Tokyo”, UTET Ed., Torino 1997.
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