FRAMMENTAZIONE

E MUTAMENTO

 

Verso un altro habitat - Vol. I, Cap. 5

 

 

 

 

"QUELLA

che il bruco crede sia la fine del mondo,

per il resto del mondo è una farfalla". [1]

 

La generale mancanza di fisionomia delle città moderne richiama alla mente svariate forme di riduzione e di mercificazione.

La stessa differenza che intercorre tra le tranches di carne esposte nel banco di una macelleria e le membra degli animali a cui appartenevano quando erano in vita.

Quelle tranches di carne hanno ancora una qualità in più degli edifici-pezzo che compongono le città moderne.  Saranno nutrimento, materia destinata ad essere trasformata, a dare nuovo impulso alla vita.

Invece la città contemporanea è il regno dell’indifferenziato, del componente non più ricomponibile.  Raramente i suoi elementi verranno trasformati tipologicamente, come accadeva un tempo.  In particolare, nella vecchia Europa tutti i componenti urbani verranno “imbalsamati”.  Anche gli edifici industriali dismessi subiscono la stessa sorte.  All’esterno il guscio e i prospetti dell’edificio vengono portati a nuovo.  Dentro succede di tutto e ci si mette di tutto, riducendo l’edifico ad un mero contenitore.

Così una forma vale l’altra, ma chi ha mai visto un pesce cubico, una mucca sferica e gli alberi-focaccia se non nel paese delle meraviglie di Alice?

 

In Architettura sembra quasi che l’unico modo di collegare i singoli componenti sia quello letterale di costruire e potenziare strade, ferrovie, linee aeree, linee telematiche collegandole ai vecchi contenitori, cioè gli edifici-scatola.

In uno slancio di perfezionismo c’è persino chi procura agli edifici una pelle di lastre quadrate di granito e finestre quadrangolari, giungendo così alla diabolica sintesi finale:  il prisma perfettamente quadrettato, o il delitto perfetto?

Nessuno impedisce questo genere di delitti.  Dentro queste scatolette rimarranno intrappolate e limitate tante esistenze.  Con la scusa dell’aria condizionata (cioè illudendo noi stessi e gli altri che stiamo fornendo loro un maggiore grado di benessere psicofisico) riusciamo a fare in modo che questi uomini e queste donne non debbano e non possano neanche aprire una finestra.  L’aria che essi respirano deve essere prima “mediata” e “ripensata”!  Come pesci in un acquario essi non hanno più alcun rapporto fisico con il mondo esterno, a volte non ne vedono neanche la luce, quella naturale.  Il torpore fisico presto invaderà pure le loro menti.

 

Perché succede tutto questo?  Perché stiamo facendo tutto questo per garantire un maggiore comfort ambientale alle persone che lavoreranno all’interno di questi edifici. Sempre con lo stesso stratagemma ipertecnologico e costosissimo schiacceremo persone, cose e spazio, dimenticando che lo spazio è impalpabile, ma reale tanto quanto la materia che lo definisce.

Schiacceremo tutto quanto, individui cose e spazio tra due piani incredibilmente sempre più vicini:  il tetto e il pavimento.

Non c’è niente di male a comprimere gli spazi in alcuni determinati punti e circostanze, il male è invece questa omogenea compressione generalizzata, regolare come il battito di un orologio atomico.  Questa uniformità nell’altezza degli spazi interni è un altro modo subdolo per appiattire le esistenze.

 

L’integrazione non può consistere semplicemente nel realizzare un percorso tra plurisecolari e sclerotiche tipologie architettoniche, perché con questo criterio è ancora frammentazione.  Per capirci meglio, tanto per fissare le idee, non è una semplice strada che potrà mai integrare fra loro i diversi edifici.

A fronte di una crescente richiesta di dinamismo nella vita quotidiana di ciascun individuo, si risponde in modo generalizzato congelando lo status quo dei modelli urbanistici e architettonici: città, residenze, servizi, arricchendoli successivamente con le ultime meraviglie e ritrovati della tecnologia per renderli più interessanti e meno sciatti.

Tutte operazioni modaiole di maquillage.  Vediamo allora pareti verticali inclinate senza nessun senso, nemmeno artistico, e rivestite di mattoni disposti di piatto e inadatti allo scopo, che già a pochi mesi di distanza dalla loro ultimazione vanno in rovina sotto l’azione della pioggia e delle escursioni termiche, con la malta dei giunti che tracima verso il basso manco fosse un’emorragia.  Vetrate usate in sovrabbondanza dappertutto, salvo poi sprecare enormi quantità di energia, ora per il riscaldamento, ora per il raffrescamento, secondo la stagione.

Potranno con queste mossette ingannare in un primo momento, ma dopo pochi anni la verità già viene a galla:  la fugace moda è già passata, e gli abbellimenti dell’edificio risultano di già scontati ed indicativi della sua precoce obsolescenza.   

 

E’ questa mancata integrazione dei singoli componenti, la mancata integrazione fra  nuovi e vecchi sistemi residenziali, industriali, di trasporto, di scambio, persino la mancata integrazione culturale  (tra culture diverse), è la mancata ricerca di nuove strategie di integrazione a tutti i livelli e in tutti i campi delle attività umane, la causa del “malessere abitativo” dell’uomo della civiltà del benessere.

 

Molti uomini illuminati hanno creduto e credono che il lavoro interiore, sul proprio spirito, sia sufficiente a cambiare il mondo.

Io ritengo invece che questo sia il primo passo, ma che purtroppo non sia sufficiente per creare un mondo migliore.  Per me e per tante altre persone un mondo migliore è un mondo in cui anche l’ambiente, tutto ciò che ci circonda sono migliori, non solo le persone.

 

Ciascuno di noi potenzia i suoi universi-isola, per sé e per la propria famiglia, ciascuno di noi potenzia la sua casa, la sua automobile, la sua barca, con tutti quegli accessori che possano fornirgli una sensazione di comunione con il mondo circostante, o quanto meno una sensazione di benessere confortante all’interno del proprio universo-isola, un comfort di cui potere usufruire quotidianamente.  Una unità e una integrità che evidentemente l’uomo contemporaneo seguendo questa strada a senso unico non potrà mai ritrovare.

Tutte queste cose superficialmente apportatrici di benessere si accumulano l’una sulle altre e ci dividono.

Lo spazio si riempie di oggetti, e il tempo che passa ne richiede sempre di nuovi.

Il malessere abitativo diventa subdolamente giorno dopo giorno malessere spirituale.

Non ci rendiamo conto che l’esistenza che conduciamo, in queste città fagocitatrici di uomini, è un’esistenza limitata, una forma di asservimento ad un stile di vita che non aderisce al nostro genuino spirito, una schiavitù che ci fa perdere vigore fisico e mentale giorno dopo giorno.

 

Si potrebbe controbattere a questa mia affermazione dicendo che le città, generando disadattamento e squilibrio psicologico nell’individuo, costringono le persone a perfezionarsi e ad adattarsi alle circostanze.  E quindi si potrebbe al contrario affermare che questi habitat così subdolamente inospitali [2]  e stressanti sono in realtà una benefica palestra per il nostro spirito, una fonte di stimolo a vivere meglio, a realizzare le nostre ambizioni.

Un paragone calzante lo farei con l’allevamento intensivo di galline ovaiole.

Com’è noto queste galline sono messe all’interno di capannoni in condizioni di stress, in vario modo:  con scarsa possibilità di movimento, con musica diffusa in continuazione, con luci che si accendono e si spengono ciclicamente onde simulare artificiali e aggiuntive giornate nell’arco delle 24 ore, oppure che non si spengono mai.

Quale che sia per la precisione il sadico e perverso procedimento industriale adottato, le galline così stimolate producono più di un uovo al giorno, a differenza delle loro fortunate colleghe che razzolano all’aria aperta tra il pollaio e un’area di terreno lasciata a loro disposizione; come è risaputo, queste ultime a volte non fanno neanche un uovo al giorno.

Tenuto conto che tutte e due le colleghe ovaiole finiranno purtroppo per loro sgozzate, dovendo scegliere tra un destino di gallina industriale e uno di gallina preindustriale, chiunque di noi sceglierebbe ovviamente il secondo tipo di destino.

 

Gli artisti, gli scrittori, i poeti, i musicisti, i registi, sono fra quelle persone che ancora riescono a dare voce al malessere abitativo che ci affligge.  Nelle città il rapporto con la natura è perso per sempre, quello sradicamento è la nostra colpa.

La voce di queste persone sensibili, di questi umanisti, è coperta dal rumore delle città:  rumore fisico del traffico, dei cantieri, delle discoteche, delle ultime notizie di eventi clamorosi che si annullano a vicenda, tragedia dei morti sulle strade, rumore delle bombe degli attentati, rumore dello scintillio di mille automobili sempre più nuove di zecca e sempre più inutili, rumore visivo delle mille insegne pubblicitarie e dei mille richiami che non ti lasciano scampo  [3] .

Nei primi decenni del secolo scorso nelle città futuriste di Antonio Sant’Elia il rumore delle città e dell’era della macchina era umanizzato e stemperato da immensi spazi misurati in tutte le direzioni dalle sue architetture.

All’inizio di questo secolo, nelle opere visionarie dell’artista Giacomo Costa, metropoli sconfinate e prive di umanità, care a Ludwig Hilberseimer e da noi subite, vengono aggredite, ossidate, degradate, “digerite” dagli elementi della natura, la quale così riafferma su di esse il proprio dominio.  Nelle premonizioni di Giacomo Costa le città sono inondate di acqua, lacerate da immensi monoliti partoriti da quella stessa tecnica che ha reso possibile la loro costruzione, e che ora si ritorce contro di esse.  In queste metropoli ridotte al silenzio, perché abbandonate dai loro stessi abitanti, la riconciliazione con la natura è possibile soltanto con il loro disfacimento.

 

L’invadenza del modello città è tale che persino nelle regioni industrializzate ove il decentramento è una realtà  [4] , si ripropone lo stesso scenario di caotico squallore.

Insegne e cartelloni pubblicitari disseminati ovunque.  Strade costellate di scatolari, quasi indifferenziati, capannoni industriali e commerciali, tutti con gli stessi squallidi parcheggi per le automobili, tutti distribuiti omogeneamente sul territorio insieme ad abitazioni rurali impeccabili, che fingono di non avere nulla a che fare con i campi coltivati circostanti;  ci fosse un muro sbocconcellato, ma no, c’è il quarzo plastico che riesce ad imbalsamare tutto.  Un bel minestrone insomma!  Tutto questo è accaduto pure nelle terre del Palladio, in Italia, in Veneto.  Lui – imitatissimo in passato in tutto il mondo –, il Palladio, colui che faceva sembrare una fattoria un palazzo principesco, se tornasse in vita, cosa dovrebbe vedere, poveretto!

In questo scenario è difficile distinguere tra la periferia di una grande metropoli e l’ambiente rurale.  Il territorio urbano e quello rurale vengono trattati nello stesso modo.  L’unica differenza tra le due realtà sta nel differente grado di densità nella distribuzione di contenitori di cose e persone. 

 

Qualcuno ha pensato bene tempo addietro di poter decostruire queste realtà urbanistiche e territoriali.  Impresa impossibile perché non si ha a che fare con entità strutturate.

Il decostruttivismo non ha così potuto portare l’anarchia laddove c’erano già la frammentazione e il caos.  L’unica cosa che si poteva decostruire e che si può ancora decostruire è l’onnipresente ottuso angolo retto.

Per il resto:  come si fa a decostruire, disorganizzare, qualcosa che non ha alcuna organizzazione?  Sarebbe come rivoltare le tombe nei cimiteri, o accatastare alla rinfusa dei container stipati in un porto creando interstizi fra di essi, scompigliare i libri accumulati in una libreria.  Risultato:  abbiamo creato tanti interstizi tra questi oggetti, un bel po’ di apparente disordine, tuttavia la struttura è rimasta invariata:  una serie di contenitori accostati uno all’altro e accumulati tutti in un solo posto.  Se prima era più facile leggere l’etichetta che li identificava, adesso che sono in disordine, ci vorrà più tempo ad identificarli uno ad uno, ma la sostanza è sempre quella:  non c’è alcuna relazione e sinergia tra di essi.

 

L’architettura decostruttivista nelle sue prime mosse conteneva concettualmente in sé un progetto e un intento di mutamento.  Decostruire la logica dello spazio urbano contemporaneo avrebbe significato quanto meno distruggere uno schema che non funziona.  Questo è  un modo come un altro per attuare un processo di trasformazione, una sorta di tabula rasa, di ricerca di riconciliazione con il mondo.  La premessa a qualcosa a venire, di indefinito, cioè una forma di speranza.

Ma l’architettura decostruttivista non ha potuto fare altro che alterare l’aspetto geometrico dei singoli edifici.  Appunto, non si è potuta sostituire l’anarchia al caos, la frammentazione dove c’era il nulla.

Infatti a distanza di tempo da quelle prime mosse è accaduto che tale modalità di fare architettura si sia trasformata in una ennesima “maniera” di forgiare forme.

Si inclinano e curvano pareti, scale, tetti, quando invece le tipologie architettoniche sono quelle di sempre, quelle del Post-Modern, quelle dell’International Style, quelle ammuffite dell’Eclettismo, cioè della scatola abbondantemente decorata e camuffata dentro e fuori in uno stile d’epoca rassicurante per i benpensanti.

Raramente la tendenza decostruttivista si è tradotta in architettura innovativa.

Vi sono pur sempre ovviamente delle eccezioni alla regola, come l’Attico a Vienna degli architetti del Coop Himmelblau, o come il Getty Museum a Bilbao di Frank Ghery, nelle quali si recupera l’integrità dell’architettura perché lì si percepisce chiaramente almeno qualche verità, cioè quella di una realtà contemporanea fatta di frammenti, di scissione, di specialismi, di mille dettagli e nessuna sintesi, nessuna premeditazione, ed un positivo dinamismo degli spazi e dei percorsi.

 

Il Getty Museum di Bilbao è la rinuncia ad ogni metodologia sistemica:  la scorza di un’arancia sbucciata, un mucchio di buste di plastica colorate, un ferrivecchi, insomma un mucchio di oggetti accatastati alla rinfusa, il caos.

Veicola un’altra verità: è più significante ed ha più valore il caos dei fogli di carta accartocciati, strappati e buttati in un cestino, che tante scatole accatastate in buon ordine un negozio di scarpe.

Un gesto di libertà estrema, genuino, sincero, ma eccezionale.  Plastico o neoplastico come la Torre Einstein a Potsdam (1921) di Enrich Mendelsohn, come la Cappella di Notre-Dame-du-Hault a Ronchamp (1953) di Le Corbusier, come la Chiesa sull’Autostrada del Sole (1961) vicino Firenze di Giovanni Michelucci.  Tutte opere stupende, ma monumentali.  Tutte bellissime irripetibili “sculture architettoniche”.

Nella vita di tutti i giorni quel tipo di architettura non è possibile:  costa troppo realizzarla, costa troppo fare la manutenzione. Non è riproducibile. Allora che cosa riserviamo ai comuni mortali, in quali casermoni li facciamo vivere?

Quando Ghery applica questa metodologia ad un edificio che non sia la villa di un magnate o un’architettura monumentale, cioè quando affronta il tema della residenza, del luogo di lavoro, il risultato è quello di un esanime “International Deconstructivism”: qualche finestra un poco storta, pilastri strapazzati per bene, pareti inclinate applicate agli “edifici-scatola” di sempre, come nel Nationale-Nederlanden a Praga, ribattezzato dalla gente in “Fred and Ginger”, la famosa coppia di ballerini.

Bello, ma starebbe meglio a Disneyland.  Anche la Torre Eiffel a suo tempo destò scalpore, salvo poi diventare un simbolo di Parigi e di tutta la Francia.   Evidentemente per cambiare il nostro vivere quotidiano ci servono lo stupendo Getty Museum a Lisbona del grande architetto americano Frank Ghery, e pure il suo “Fred and Ginger“, ma soprattutto ci servirebbe un vero e ininterrotto cambiamento, che corrisponda all’oggettiva realtà di una realtà contemporanea in continua evoluzione.

 

Noi Occidentali, coviviamo nel nostro civilissimo – a nostro dire -, ambito democratico che vorremmo imporre ed estendere su vasta scala a tutto il mondo, quasi a portare il paradiso in terra, ma che democrazia è?  Quale potere decisionale reale ha il cittadino comune di una democrazia occidentale, a parte quello fittizio del voto a chi promette molto in campagna elettorale, e dopo essere stato eletto fa ben poco di concreto se non gli interessi dei soli potentati e delle solite élite?

Miliardi di persone combattono quella che è una pacifica, si fa per dire, guerra economica mondiale, in cui, quando una spoliazione di massa ha successo, si parla di crescita economica per il Paese vittorioso che ha rifilato le sue perline di vetro colorate agli avidi consumatori di turno e ai poveri disgraziati che non ne possono fare a meno.

Ci dicono che ciò favorisce il progresso, che tramite la competizione e gli scambi iniqui si forgiano nazioni migliori.

Ciascun individuo di queste nazioni è ben determinato a combattere questa pacifica guerra perché sempre più mosso dal sentimento dell’avidità, dell’accumulo, dell’esibizione dei propri trofei di guerra:  non avventura umana, esperienza, ma numeri cifre quantità oggetti e oggetti su oggetti, e ancora numeri, ancora quantità.

Stati e persone accumulano e consumano una grande quantità di beni per lo più inutili.  L’obesità è diventata secondo alcuni studiosi una vera e propria epidemia.   Essendo quelli accumulati  per lo più beni inutili, l’unico scopo  che possono avere è quello di meri strumenti di vanità.  Una volta assolto il loro vano ed effimero compito saranno destinati ad alimentare una miriade di colline e montagne di rifiuti.

 

Intere città subiscono lo stesso destino di questo ammasso informe amebico di oggetti, grandi e piccini: diventano rifiuti.

Una volta esclusivi luoghi di villeggiatura, intere città vengono successivamente abbandonate in massa non appena raggiunto lo scopo predatorio da parte degli affaristi e degli immobiliaristi di turno.  In questi luoghi un tempo ameni ormai non c’è altro da vedere che una distesa di case ammassate l’una vicino all’altra esattamente come un cumulo di rifiuti, tutte esclusive e con vista esclusiva su quell’unico paesaggio che, ormai colmo di esclusività, non si riconosce più in mezzo a tante case e quindi non serve più a niente.

A questo punto per i proprietari delle case esclusive al mare, in collina e in montagna, non resta che trasformarsi da vittime in carnefici, e cercare di rifilare la propria esclusività a qualcun altro, magari rivendendola o affittandola ai bisognosi e ai nuovi arrivati, i quali loro malgrado non possono sottilizzare troppo su dove gli tocca prendere casa.

 

Allora, visto che l’urbanesimo è divenuto nell’era moderna sinonimo di consumismo, oltre che di sovrappopolazione, non sarebbe ora di cambiare totalmente il modo di fare architettura?

Possibile che non si capisca che l’errore è nel metodo seriale adottato che è del tutto inadeguato alla dimensione dei grandi numeri dell’epoca contemporanea?

 

Il Mutamento possibile di ciò che chiamiamo città metropoli periferia suburbio non riguarderà solo il singolo componente.

Ogni forma di rinnovo urbanistico che parta da questo presupposto – il divorzio tra urbanistica e architettura - proporrà ancora una volta la sostituzione di un componente vecchio con uno nuovo, in un gioco meccanicistico che lascia invariato il disegno dell’insieme.  Secondo questa logica si attuerà una semplice manutenzione di un corpo già vecchio in partenza, la manutenzione straordinaria di una forma inadeguata ai nuovi compiti.

In più non possiamo attendere fatalisticamente un mutamento che provenga dall’alto, gongolandoci del fatto che non esistono movimenti e direzioni ed orientamenti alternativi in architettura.  Non si può attendere un mutamento che ci venga imposto dal dio della tecnica, dal dio denaro o da qualche catastrofe ambientale.

 

La frammentazione dell’habitat umano è lo specchio di una società che non è ancora autenticamente democratica, perché la democrazia è l’assunzione di responsabilità da parte di tutti e non l’egoismo di tutti al potere.

L’egoismo libertario di tutti finisce per diventare una infima forma di anarchia.  Una società così organizzata, o meglio altamente disorganizzata e priva di una visione del futuro, giusta, sbagliata o perfettibile che sia, finirà prima o poi per soccombere agli eventi, sopraffatta dai problemi che essa stessa continua a creare e ad accumulare intorno a sé.

 

 

L’evidenza, l’ambiente malamente antropizzato che si profila davanti ai nostri occhi e che subdolamente insidia il nostro animo, non è reale più di quanto non si voglia credere lo sia.  Ne siamo forse tanto assuefatti che non riusciamo più ad immaginare una realtà diversa.

Questo cumulo di edifici scatolari a lunga conservazione non è tutto quanto possiamo fare oggi, bensì un limite che ci siamo imposti senza un motivo ragionevole.  Con queste parole Luigi Pellegrin ha espresso una volta questa possibilità di mutamento, che potremmo facilmente attuare se solo lo volessimo:

     [ omissis ]

 



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Michele Leonardi - Verso un Altro Habita[...]
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[1] Questa massima si adatta bene al pensiero taoista di Chuang-tzu, o di Lao-tzu.  Viene da molti attribuita a quest’ultimo, ma nel Tao-te-ching non vi è traccia di essa.  Invece si trova nel capitolo 19 di “Illusioni” di Richard Bach  (trad. it. Rizzoli Ed., Milano 1977) con le seguenti parole: “Quella che il bruco chiama la fine del mondo, il maestro la chiama una farfalla”. Ma c’è chi sostiene senza alcun riferimento, si tratti invece un antico detto cinese, forse confuciano.  A chiunque vada attribuita, comunque esprime bene il concetto della paura del mutamento.

 

[2] Questi habitat-città dovrebbero infatti proteggerci dai mali del mondo naturale, offrendoci non solo lavoro e cibo, ma pure amicizie, conoscenza, cure dalle malattie, arte, giustizia, identità, senso di appartenenza ad una comunità.

 

[3] Mentre nell'ex Bel Paese siamo sopraffatti da un caos di insegne e indicazioni, abusive e non, che si annullano a vicenda, invece, in quella che è stata una delle culle del capitalismo, cioè in Gran Bretagna, è raro imbattersi per strada in un cartellone pubblicitario.  Se è vero che la pubblicità è l’anima del commercio, perché lì no e qui sì? Così in Italia siamo costretti a vedere sequenze indefinite di cartelloni pubblicitari e segnaletica ridondante e superflua, cioè quantità illimitate di quello che è a tutti gli effetti un vero e proprio inquinamento visivo.

 

[4] Cioè nelle regioni ove non esistono grandi metropoli, bensì una rete di piccole città e piccole comunità in un territorio destinato all’agricoltura misto a un sistema diffuso di piccole e medie imprese. Per esempio in Italia questa situazione si riscontra nel nord-est d’Italia, e nella Pianura Padana, dove l’assenza di ostacoli naturali permette più facili collegamenti, ma anche in altre aree geografiche del territorio italiano non necessariamente pianeggianti.

[ omissis ]

 

 

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ACKNOWLEDGMENTS

Even the longest journey begins with a first step! Systemic Habitats is on line since the 18th of May 2012. This website was created to publish online my ebook "Towards another habitat" on the contemporary architecture and urbanism. Later many other contents were added. For their direct or indirect contribution to its realisation strarting from 2012, we would like to thank: Roberto Vacca, Marco Pizzuti, Fiorenzo and Raffaella Zampieri, Antonella Todeschini, All the Amici di Marco Todeschini, Ecaterina Bagrin, Stefania Ciocchetti, Marcello Leonardi, Joseph Davidovits, Frédéric Davidovits, Rossella Sinisi, Pasquale Cascella, Carlo Cesana, Filippo Schiavetti Arcangeli, Laura Pane, Antonio Montemiglio, Patrizia Piras, Bruno Nicola Rapisarda, Ruberto Ruberti, Marco Cicconcelli, Ezio Prato, Sveva Labriola, Rosario Francalanza, Giacinto Sabellotti, All the Amici di Gigi, Ruth and Ricky Meghiddo, Natalie Edwards, Rafael Schmitd, Nicola Romano, Sergio Bianchi, Cesare Rocchi, Henri Bertand, Philippe Salgarolo, Paolo Piva detto il Pivapao, Norbert Trenkle, Gaetano Giuseppe Magro, Carlo Blangiforti, Mario Ludovico, Riccardo Viola, Giulio Peruzzi, Ahmed Elgazzar, and last but not least Warren Teitz.  M.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

 

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