INTEGRAZIONE
DEI SISTEMI
Verso un altro habitat - Vol. I, Cap. 4
LO SVILUPPO
sostenibile porta a dei vantaggi non necessariamente indotti solo da politiche di incentivi o da normative restrittive di tutela.
Nel settore dell’industria, per esempio, gli scarti di lavorazione di un’azienda possono essere utili per un’altra azienda, cioè per un altro processo produttivo. Lo stesso circolo virtuoso vale per il riciclaggio dei rifiuti, per esempio la carta [1], i rottami di ferro, le bottiglie di plastica, il vetro, per il riuso dell’alluminio, che divengono così ancora materie prime da lavorare. Di recente, in Italia, un gruppo di ricercatori del C.N.R. di Napoli ha trovato il modo per riutilizzare produttivamente anche gli scarti di lavorazione dell’industria dei pomodori, con riduzione netta dei costi di smaltimento degli stessi scarti, e riciclaggio di questi per la produzione di plastiche biodegradabili. Lo stesso si può fare a quanto pare anche con gli scarti di lavorazione dell’industria agroalimentare delle arance. E’ evidente che simili processi portano a significative economie di scala ed è pure chiaro che si possono interpretare come processi di integrazione tra sistemi e pratiche altrimenti fra loro segregate e quindi inefficienti.
Parimenti nel mondo dell’informatica l’integrazione dei più disparati elementi tecnologici - computer, database, telefoni, fotocamere, ecc.-, ha portato ad un'esplosiva innovazione tecnologica, accompagnata però da un'altrettanto dirompente disoccupazione tecnologica, di cui però non ci occupiamo in questa sede. [2] Tuttavia osserviamo fin da subito che tutta questa innovazione ed integrazione tecnologica non serve a nulla se alla fine non porta a un miglioramento delle condizioni di vita dell'umanità e ad un miglioramento della qualità della vita delle persone. Non è questo il genere di integrazione che ci interessa.
Quindi, se in diversi settori delle attività umane l'integrazione ha portato a notevoli benefici per tutti, concreti o almeno possibili, in architettura invece, che genere di integrazione si promuove?
Si ricercano nuovi materiali per l’edilizia e nuovi processi produttivi, anche se in realtà molti dei nuovi materiali provengono soprattutto dalla ricerca applicata ad altri settori tecnologici. Si adottano materiali biocompatibili, non solo nei riguardi della salute dell’uomo, ma anche non nocivi per l’ambiente a partire dal processo produttivo industriale del componente fino alla sua messa in opera.
Si fissano nuovi standard per il contenimento dei consumi energetici, ovvero per esempio l’isolamento termico degli edifici. Si fissano nuovi standard riguardo il benessere psicofisico all’interno e all’esterno degli edifici. Benessere nei riguardi dei rumori, della presenza di radiazioni ionizzanti, nei riguardi del rilascio di sostanze tossiche negli ambienti confinati delle abitazioni e dei luoghi di lavoro, e via dicendo.
Dal punto di vista urbanistico e politico si sperimentano nuove forme di organizzazione territoriale e nascono nuove entità amministrative. Per esempio in Italia negli ultimi anni sono stati introdotti nuovi concetti e strumenti urbanistici, mentre altri Paesi hanno già messo in atto questi modelli molti decenni prima: come quelli di Comune metropolitano, dei Patti territoriali, dei Contratti di quartiere, vista l’inadeguatezza della mono funzionalità e della zonizzazione omogenea urbanistica bidimensionale applicate alle città e al territorio. Viste pure le carenze e le lungaggini delle procedure urbanistiche lineari e gerarchiche. E vista anche l’inadeguatezza delle strutture amministrative in cui in un punto nodale qualsiasi della struttura organizzativa, l’amministratore non può fare altro che applicare solo ciò che è strettamente previsto dalle norme e dalle procedure massimaliste, che così lo deresponsabilizzano del tutto, perché la realtà è sempre più complessa di quanto vogliano esserlo quelle medesime norme presuntuosamente omnicomprensive.
Sappiamo bene che vi sono numerosi Paesi al di fuori dell’Italia molto più avanzati in questo campo, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista operativo: Olanda, Francia, Germania, Regno Unito.
Tuttavia nel migliore dei casi il risultato è dato da una insostenibile crescita urbana in orizzontale, cioè a bassa densità residenziale che divora territori immensi, come la metropoli americana di Phoenix o come Londra, quest’ultima peraltro senza alcun dubbio più a misura d’uomo e vivibile rispetto a mostruosità alienanti come Città del Messico, Tokyo, Los Angeles, Mosca. Città con un’anima soffocata, ombelichi del mondo che divorano una spaventosa quantità di risorse per perpetuare il rito compulsivo dell’eccesso consumistico.
Ogni giorno milioni di esistenze si consumano in habitat-città come New York, Los Angeles, Mosca, Tokyo, Shanghai, Parigi, alla ricerca della felicità: per guadagnarsi semplicemente da vivere perché lì c’è il lavoro, per realizzare le proprie ambizioni e i propri sogni, per sostenere la propria famiglia, per abitudine, perché si è nati lì e lì si continuerà ad abitare, tutti questi motivi messi insieme; i motivi essenziali non sono poi tanti.
Se queste città metropoli e conurbazioni avessero delle mura, diremmo che passiamo tutta, o gran parte delle nostre giornate, in una prigione ben attrezzata di inutili ed alienanti passatempi.
E’ per questo che il cittadino evoluto è sempre in corsa. Il suo dinamismo è quello di chi sta inconsapevolmente cercando di sfuggire da un luogo chiuso. Come un leopardo in gabbia, il cittadino evoluto gira freneticamente seguendo il limite di sbarre invisibili.
Nel caso di New York, se escludiamo la penisola di Manhattan, con il suo favoloso Central Park, con i suoi musei, con i suoi grattacieli stupendi inaccessibili e maledettamente schiacciati l’uno a fare ombra all’altro – una foresta di tronchi pietrificati che costringono migliaia di persone a vivere alla luce spettrale dei neon -, se escludiamo la Statua della Libertà e il Ponte di Brooklyn, ci chiediamo: come può vivere un uomo in tanta desolazione di asfalto e cemento?
Come possono miliardi di persone rassegnarsi a compiere il loro destino inermi nello scenario di questi insensati habitat chiamati città ?
Io ho deciso che non mi adatterò mai a queste realtà che chiamiamo città.
So che potrei un giorno assuefarmi, come fanno in tanti, a questa entità che viene spacciata come inevitabile, accettandola infine come naturale o logica, oppure ritagliandomi un’oasi di evasione in un luogo remoto e dimenticato da Dio, almeno per il breve di una vacanza.
No, non voglio immergermi in un limbo privo di coscienza, ho deciso che non mi farò confondere da chi ti dice che “sa vivere” e invece sciama incessantemente su un’automobile dal luogo di lavoro a casa, dalla casa allo stadio, dalla città ad una amena e preconfezionata meta turistica, cercando di stabilire un record di conformismo rispetto ad una tendenza generale preconfezionata a misura dei beoti. Questo tipo di “saper vivere” è stato riservato agli sciami di cavallette.
Sicuramente la loro è una breve intensa felice esistenza: a loro modo fanno l’amore e mangiano con gusto, ma al loro passaggio cosa lasciano? Lasciano il segno della distruzione. Che valore può mai avere tutto questo? …nessun valore, nessuna differenza, perché fra il niente che c’è qui e il nulla che c’è poco più in là, non c’è nessuna differenza, cioè nessun significato.
Una città moderna vale l’altra, sono tutte simili e producono tutte lo stesso senso di estraniamento nell’individuo, perché non hanno nessun valore. Personificando queste entità diremmo che non hanno né un volto né un’anima, nel senso che immergendoci nella realtà di queste città moderne non scorgiamo lo spirito delle comunità che esse ospitano.
Alcuni provano a sfuggire a tanta noia rifugiandosi nel cuore delle antiche città per riscaldarsi con le loro ceneri, ma gli alberi secolari sono pochi e noi dovremmo piantarne di nuovi, di “alberi”. Le vecchie strategie proprie del modello fin troppo concreto di habitat-città nell’era moderna possono produrre solo fantasmi di città.
Allo stesso modo pare che in tema di edilizia residenziale nessuno sia interessato, sia dal punto di vista economico che da quello funzionale, ad andare oltre la tipologia della plurisecolare casa a schiera, o dell’edificio ad appartamenti, a torre o a linea che sia.
Nessuno vuole rischiare nulla. Gli investitori e gli imprenditori non rischierebbero oggi mai una sola moneta per realizzare qualcosa che non sia una tipologia consolidata, perché sono certi – ma dove gli viene questa ottusa certezza? - che non troverebbero un solo acquirente. Viceversa quando l’architettura diventa vistosa e costosa ostentazione di tecnologia avanzata, si tratta, da parte della committenza o degli imprenditori immobiliari, di una superficiale operazione d’immagine volta ad esibire il proprio potere economico rispetto ad altre comunità, per ribadire null’altro che la propria floridezza economica. Dietro tutto questo c’è il solito nulla di valori umanistici.
Il lettore mi perdoni per questa mia temporanea semplificazione della realtà.
Se prendiamo la Sede dei Lloyds a Londra di Rogers si capisce benissimo che questa architettura “è un mondo”, una realtà diversa da quella ordinaria. Ed è pure chiaro che la scelta così operata a suo tempo dai Lloyds nell’affidare l’incarico a Rogers stava a significare il credere ed avere fiducia nel futuro.
Per non parlare di tutte le irripetibili realizzazioni dell’architetto belga Lucien Kroll, dei suoi scritti [3] e della sua “architettura partecipata”, o meglio, delle sue concrete realizzazioni di architettura partecipata.
Il punto è che in genere queste architetture eccezionali sono destinate al momento a rimanere dei brani isolati in un habitat, quello della città, che segrega tutto e tutti, e che mal si adatta al dinamismo della vita e degli eventi contemporanei.
Nell’habitat-città mancano le idee, mancano le strategie, non c’è gioco perché non ci sono regole fatte a misura d’uomo, non ci sono principii, non c’è sostanza.
Proviamo infatti a giocare all’habitat-città; è un gioco talmente stupido che si potrebbe fare da soli o lasciarlo fare ad un automa.
Per ogni chilo di uffici ci mettiamo quattro chili di case e un etto di scuole, un etto di ospedali, altri dieci chili di strade … magari due chili di parchi così ingentilisco il tutto e si riesce pure a pigliare per i fondelli la gente con un po’ di verde “ecologico”, quasi che fosse un’equazione: prato più quattro alberi, uguale ecologia.
Poi si prende un bel quintale di industrie manifatturiere e un altro tot per gli edifici destinati alla ricerca, da mettere un po’ più in là, a chilometri di distanza, in modo discreto, anzi sacrale. Si ammanta il tutto di una spruzzata prezzemolina di alberelli, panchine, piste ciclabili, fontane che non sono né arte né edilizia, un inno allo spreco.
A questo punto si impasta il tutto, e se le dosi e gli ingredienti sono giusti (ma è molto difficile sbagliarsi tanto la metodologia è ottusa), si ottiene un bel salame pronto da stagionare, anzi, già stagionato perché si è fatto uso di una ricetta collaudatissima.
Il livello di integrazione degli elementi di un insaccato è più o meno lo stesso di quello di un habitat-città contemporaneo.
Che struttura ha un salame? Un contenitore tubiforme, il budello, con dentro una pasta omogenea di carne, dadini di grasso, sale e spezie, ingredienti vari eterogenei.
Il grado di organizzazione di un habitat-città è lo stesso di quello di un salame, o di un minestrone: è un miscuglio monotono, il suo grado di organizzazione è ancora “zero”, è una somma di componenti “che non si sommano”.
Quando i tecnocrati ci propinano le loro messi di dati sui flussi di traffico urbano ci vorrebbero far credere che quei dati sono una struttura formale.
La loro audacia e arroganza spesso arriva al punto di affermare che la variazione di uno di tali parametri da loro rilevati, e pazientemente quantificati, sia già un progetto. Ma quel risultato non è niente! E’ solo tempo perso a manipolare una alchimia di dati e con essi la vita delle persone.
Questi tecnocrati al più ci potranno dare un salame poco più buono del precedente, ma niente di più che qualcosa di simile al primo salame.
Oggi più che nei tempi passati la gente vuole una casa in un qualsiasi stile tradizionale e tradizional-moderno, dalla porta di ingresso fino al rubinetto del lavandino, per poterci mettere accanto tante eccezioni fatte di elettrodomestici high-tech dal design avveniristico.
Altri sopraffatti e nauseati da tanto eccesso e tanta falsità chiedono una architettura minimalista, in cui tutto è ridotto all’essenziale. Può essere autentico desiderio e necessità di semplicità e chiarezza, oppure ancora una volta richiesta di rassicurazione tramite il richiamo alle austere case dei contadini, dei pastori, dei pescatori, del passato. Tuttavia noterete quasi immancabilmente che su tutto questo minimalismo casalingo svetta come al solito il solito elettrodomestico high-tech ultimo modello. E’ quell’accrocco lì e tutta l’altra oggettistica di contorno che comandano in casa.
In questo stato di cose si sono comodamente adagiati tutti: le singole persone, la collettività, ancora di più gli architetti, i costruttori, la committenza pubblica.
Tutto si è fermato agli anni ’70.
L’Habitat 1967 a Montreal di Moshe Safdie e la Nagakin Capsule Tower, la Torre Nagakin a Tokyo di Kisho Kurokawa del 1972 sono rimasti due irripetibili casi senza seguito. La seconda è a rischio demolizione, ma pare che in molti si siano opposti, primi tra tutti i cittadini di Tokyo. ... Quindi, che cosa è successo?
La scoperta che sulla Luna non c’è niente di utile ha generato la sfiducia nel progresso? O forse il miraggio del benessere materiale ottenebra a tal punto gli animi che a nessuno interessa più di tanto l’architettura che sta al di fuori del giardino di casa propria? Forse che abbiamo a disposizione tanta bella architettura del passato che non vale la pena farne altra, dichiarando così tutta la nostra inettitudine come comunità e società?
Tranne qualche sporadico brano di discontinuità, città e case sono sostanzialmente concepiti da millenni allo stesso modo.
Al più cambia l’aspetto superficiale di questi, ora tramite un capitello di pessima qualità rispetto ad uno del passato, oppure tramite la deformazione di una facciata architettonica o di un corridoio, prima variando l’angolo fra i piani, poi curvando qualche piano qua e là.
Alle architetture dell’eccezione fanno da sfondo rassicuranti casette in un qualsiasi stile architettonico del passato o in stile classico-moderno. Pura scenografia.
Le città continuano a crescere come un ammasso di oggetti accatastati alla rinfusa, oppure maniacalmente ordinati come i lingotti d’oro in un caveau. Mentre i singoli edifici vengono usati come scrigni contenitori di una marea di altri oggetti, che prima o poi occuperanno tutto lo spazio disponibile, come succede all’interno di qualsiasi contenitore. Giustamente un contenitore va riempito.
Uno dei rari esempi di un pianificato e riuscito risanamento urbano di una metropoli in rapida crescita è quello della città di Curitiba, capitale dello Stato di Paranà in Brasile.
Quanto è stato realizzato a Curitiba è la prova di come le costosissime soluzioni ipertecnologiche non siano di grande aiuto ai fini della risoluzione dei problemi che affliggono le grandi città. In special modo riguardo uno dei gangli più “delicati” di una grande città, che è quello del sistema dei trasporti urbani.
Nelle città del Nord America si ricorre spesso alle freeways, grazie allo strumento lì funzionante degli espropri e grazie soprattutto al fatto che in quei Paesi di certo non esiste un patrimonio storico da tutelare ed imbalsamare, come accade nella Vecchia Europa. Ma queste costosissime freeways non risolvono comunque neanche lì il problema degli spostamenti, o meglio, dell’eccesso di mobilità delle persone e delle cose. In tutte le metropoli del mondo spostarsi in città significa incorrere in rallentamenti e ritardi, e non solo nelle ore di punta. Eppure le metropoli del Nord del mondo sono ben attrezzate con efficienti sistemi di trasporto pubblico, quali appunto i sistemi di metropolitana, ma non bastano mai, perché ci si ostina a sanare l’eccesso di mobilità con ulteriori potenziamenti delle reti di trasporto che non producono altro che un ulteriore susseguente aumento del traffico.
Il cittadino si trova così a doversi spostare da un capo all’altro della città perché in essa mancano dei poli urbani integrati con il sistema dei trasporti che possano ridurre drasticamente non solo il numero degli spostamenti di tipo periferico, ma anche quelli ciclici dalla periferia al centro (alla city), un centro che è immancabilmente congestionato.
Nel caso della metropoli brasiliana di Curitiba che cosa è successo di diverso?
Un fattore determinante è stato l’integrazione dei sistemi e dei componenti alla scala urbana. Integrazione che lì, in quel luogo, è risultata valida. Tuttavia le soluzioni adottate a Curitiba non si potrebbero semplicemente emulare come una procedura standard da applicare ad altre città. Ad esempio a Roma gli amministratori hanno provato nel corso degli anni a ricreare in parte lo stesso sistema con corsie preferenziali riservate ad autobus a uno o due segmenti. Impresa impossibile e con scarsi risultati pratici, dal momento che in una città secolare e sclerotizzata come quella di Roma non si può e non si è riuscito a fare quasi nulla. Una delle occasioni mancate è stata quella dell’anello ferroviario, realizzato solo sulla carta, poiché come vedremo più avanti era stato inizialmente concepito come un vero e proprio sistema integrato, e in vent’anni dal suo iniziale concepimento praticamente non si è fatto nulla oltre le solite chiacchiere e polemiche all’italiana. Risultato: dilagano come mosche moto e motorini, con continui incidenti e morti sulla strada.
L’integrazione non può aver luogo se non vi è ancor prima la partecipazione di tutte le parti sociali, anche tramite i rispettivi rappresentanti, e l’assunzione di responsabilità da parte di tutti verso quello che è il bene comune.
A differenza di Curitiba, a Roma, metropoli che ha lo stesso ordine di grandezza di Curitiba in termini di abitanti, nessuno è disposto a rinunciare ad alcunché per il bene comune. Decentrare il parlamento italiano fuori dal centro storico? Non se ne parla proprio direbbero i parlamentari, soldi sprecati, e poi “ho comprato casa nel centro storico”! Portare i ministeri fuori della Capitale, disperdendoli in altre città di Italia? Assurdo, direbbero i ministeriali, abbiamo radici profonde chilometri ben piantate nel suolo di Roma, non siamo mica degli sradicati! Si può azzardare l’ipotesi che la stessa cosa succeda in tutto il mondo. Le élite si arroccano in un punto della scacchiera, e tutti i pedoni gli fanno seguito spintonandosi a vicenda per vedere più da vicino come imitare i loro paladini.
In più Roma, come tutte le grandi città, offre maggiori opportunità di lavoro. La “piccola” Roma - piccola in confronto a tantissime altre metropoli mondiali -, è la capitale di Italia con la sede del parlamento, dei ministeri, e di una miriade di altre sedi a carattere nazionale. E’ capoluogo di regione e capoluogo di provincia, polo universitario e polo ospedaliero del centro e sud Italia, polo religioso mondiale cattolico, con la Città del Vaticano e tutti i luoghi di pellegrinaggio e pii istituti che la costellano. E’ meta turistica internazionale, è la cosiddetta Città Eterna, con monumenti millenari e uno dei centri storici più grande d’Europa. Ha anche qualche polo industriale di una certa rilevanza, come quello della Tiburtina, nonché a poche decine di chilometri di distanza quelli di Pomezia, S. Palomba, Aprilia, lungo l’asse Roma-Latina. Roma è pure il comune agricolo più grande d’Italia, nonostante la secessione di una grossa porzione del suo territorio originario che era data dall’attuale Comune di Fiumicino. Probabilmente continuerà ad essere il comune agricolo più grande della Penisola, almeno finché non saranno cementificati tutti i suoi terreni ancora liberi ed inedificati. Così Roma di conseguenza offre maggiori opportunità di lavoro rispetto ad altre città, e continua a richiamare gente da tutte le parti del centro e del sud Italia, e da altre parti del mondo. Il risultato è che la Città Eterna è un caos, per usare una parola gentile, piuttosto che dire che è una casino, nonostante la sua popolazione residente sia di soli due milioni e settecentomila abitanti, dato che emerge dagli ultimi tre censimenti decennali.
Nessuno si è mai posto il problema di limitarne la crescita mediante l’allontanamento di alcune funzioni territoriali. Se Roma cresce, decadono altre città nella stessa regione, cioè il Lazio; decadono città come Rieti, Viterbo, Latina, Frosinone, Aprilia, ecc. Mentre se queste ultime si potenziassero, ad esempio decentrando alcune – non tutte – funzioni territoriali della capitale, si potrebbero recuperare tanti paesi spopolati del Lazio abitati per lo più da anziani in pensione tornati ai luoghi natii.
Così come, se si potenziassero le ferrovie, anziché costruire nuovi megacentri commerciali raggiungibili solo con l’automobile, va da sé che molte delle persone che oggi lavorano a Roma, la sera se ne potrebbero tornare tranquillamente in qualche paese del Lazio, cosa che rivitalizzerebbe tutto il territorio date le conseguenze. O quantomeno, se ne avvantaggerebbero tanti pendolari costretti ad ore di code in automobile, ad alzarsi alle quattro del mattino, o a soffrire in piedi in un affollato treno ottocentesco sempre in ritardo.
A Roma, vecchia città europea, il “modello Curitiba” non funziona. Le corsie preferenziali dei bus e dei tram rimangono inutilizzate e vuote tra il passaggio di un mezzo e l’altro per troppo tempo. Alle fermate dei bus non ci sono come a Curitiba le pensiline di attesa con pedana a livello del piano del mezzo di trasporto. Così ogni volta che il mezzo si ferma, a Roma perde più tempo del dovuto per il saliscendi della gente sui gradini dello stesso mezzo.
Quindi il “modello Curitiba” – che non si esaurisce nel solo sistema di trasporti adottato, ma è ben di più -, non è una ricetta pronta all’uso per qualsiasi occasione. E se pure in alcuni casi si potrebbe applicare così com’è senza alcuna modifica o soluzione aggiuntiva, in generale, è il “metodo Curitiba” che deve servire da esempio.
Sulla pianificazione urbana a Curitiba si sono espressi chiaramente Jonas Rabinovitch e Josef Leitman in un loro articolo pubblicato tempo fa da “Le Scienze” [4] .
In sostanza, a Curitiba, metropoli brasiliana capitale dello Stato del Brasile, anziché adottare reiteratamente soluzioni tecnologiche sempre più costose a problemi annosi di dissesto ambientale e di trasporti, si è fatta una scelta totalmente opposta, totalmente contraria a quell’insieme di credenze contemporanee che vanno sotto il nome di “crescita, sviluppo, progresso”. Quello che si è fatto a Curitiba è un esempio lampante di “decrescita”, sebbene questo sia un caso di vero progresso.
Senza entrare nei dettagli di tutte le organiche strategie attuate, richiamiamo qui brevemente due tra gli aspetti più importanti. E si tenga ben presente che non si può ridurre tutto a questi due elementi, perché come già detto non si tratta di una ricetta pronta all’uso per ogni evenienza da propagandare al popolo come gli imbonitori.
Sussistendo il grave problema delle alluvioni e inondazioni periodiche in città, a Curitiba gli amministratori e i pianificatori, già a partire dalla fine degli Anni ’60 del secolo scorso, hanno deciso di smetterla di imbrigliare i corsi d’acqua in canali e canaloni, di smetterla di realizzare dighe e altre inutili opere di ingegneria idraulica dentro e fuori la città. E così hanno saputo dire basta alla espansione incontrollata delle nuove edificazioni in prossimità dei fiumi e dei laghi. Cosa che in Italia tra un condono edilizio e l’altro non si riesce proprio a fare. [5]
Il risultato, evidente in tutto il settore ovest della metropoli e alla periferia della città, è che quando arriva un’alluvione la massa d’acqua può finalmente esondare senza travolgere case, cose e persone, semplicemente allagando tutte quelle aree urbane e periferiche rese o mantenute libere, che altrimenti, quando non c’è la piena, sono destinate a parchi e ad altre attrezzature all’aria aperta.
Sembrerà una soluzione banale, ma è appunto tutto il contrario di quello che si continua a fare in tutto il mondo, con fiumi e torrenti ridotti ad una sorta di cloaca sotterranea, dighe e sbarramenti costruiti dappertutto senza un criterio che non sia quello economico, corsi d’acqua incanalati tra muraglie di cemento a protezione di fabbriche ed abitazioni, con il risultato che anziché risolverlo, il problema lo creano quelle stesse insensate opere idrauliche e quelle stesse edificazioni balorde. E’ ben noto che queste opere di imbrigliamento con le piogge torrenziali diventano vere e proprie autostrade dell’acqua piovana. I fenomeni metereologici estremi, poi, non fanno altro che aggravare il problema. Ne sappiamo qualcosa già in Italia, senza andare a finire in Brasile, e purtroppo non passa anno che non si verifichi una nuova tragedia in seguito ad un’alluvione, dovuta in realtà non tanto all’alluvione, fenomeno naturale inevitabile e prevedibile, ma ad una insensata edificazione, ad una pessima gestione del territorio, e alla mancanza totale di pianificazione.
I cementifici ci guadagneranno di meno, ma la collettività complessivamente risparmia così inutili lutti, risorse, danni ai beni personali e ai beni pubblici.
Un altro elemento fondamentale del successo urbanistico di Curitiba è stato quello del coinvolgimento dei cittadini in questo processo di riqualificazione urbana. Su questo punto, quello di una architettura e un’urbanistica partecipate, seppure importantissimo, per brevità rimandiamo alla letteratura specifica, nonché all’articolo sopra menzionato, perché la gente è stata coinvolta pure nel riciclaggio dei rifiuti, molti anni prima che divenisse una realtà in tante città del mondo.
Parimenti a partire dagli anni Settanta gli amministratori di Curitiba hanno pianificato uno sviluppo di crescita urbana lungo cinque grandi assi viari articolati in una strada centrale riservata interamente ai mezzi pubblici con due corsie laterali locali, e due strade a scorrimento veloce parallele e distanziate (dal primo asse veicolare) create per accedere rapidamente al centro cittadino. A ridosso di ciascuno di questi cinque triplici assi si è programmato e realizzato negli anni l’insediamento delle attività direzionali e del terziario.
Rabinovitch e Leitman hanno rilevato come si possa rendere più vivibile una città e il territorio sul quale si attesta, non solo utilizzando tecnologie poco costose, ma soprattutto facendo leva su “tanta saggezza”.
Questa “tanta saggezza” si potrebbe definire come la capacità degli amministratori comunali – che non a caso sono pure architetti e urbanisti -, di saper organizzare fisicamente le risorse umane e materiali disponibili, la capacità di non piegarsi di fronte alle mille volontà particolaristiche delle lobby economiche, di non sottostare irresponsabilmente al gioco propagandistico delle fazioni politiche in lotta fra di loro.
Non c’è bisogno a questo punto di invocare qualità umane come l’onestà, la virtù, la rettitudine, o le doti sovraumane degli eroi. Questa saggezza è fatta di semplice intelligenza, dialogo, cooperazione tra le singole parti in conflitto di interesse, e tra le varie classi sociali di cittadini.
L’assenza di architettura sociale – cioè dei luoghi pubblici deputati ai cittadini, come lo era il foro, in tutt’altro contesto, al tempo degli antichi Romani, tanto per fare un esempio – è il segno e il presupposto della mancanza di dialogo, di scambio di vedute e di idee.
Il rapporto tra le parti sociali diventa difficile se non quasi inesistente, perché se non c’è un luogo fisico dove incontrarsi, c’è mancanza, menomazione per la società intera.
Pensiamo per un attimo ad una città come New York, metropoli per antonomasia. La gente dove si incontra?
Alla Carnagie Hall, o al Central Park? Al Guggenheim Museum o in un centro commerciale, nei bar, al ristorante? Si incontrano al bar, al ristorante, o durante un party organizzato dai diversi gruppi etnici che vi risiedono, segregati in altrettanti quartieri etnici?
Si può dire che i newyorkesi si incontrano quando vanno a vedere una partita o un concerto allo stadio, come succede in tutte le altre metropoli del mondo?
E’ ben poca cosa questa quantità e qualità di spazi e di tempi per il sociale se si pensa che una metropoli è una città abitata da milioni di persone.
Ritorniamo al caso della metropoli brasiliana di Curitiba. Qui è la progettazione integrata dei sistemi urbani, a tutte le scale, che fa funzionare e rende più vivibile la città nel suo complesso.
Un elemento cardine della pianificazione urbana di Curitiba è il sistema pubblico dei trasporti basato interamente sugli autobus (qui è risultato il più efficace che in altre città del mondo), un sistema che ha decongestionato la città dal traffico veicolare. E poi è risultato più economico delle costose linee metropolitane.
[ omissis ]
... leggi tutto:
Documento Adobe Acrobat [2.3 MB]
[1] Nel 1999 i Paesi che riciclavano la maggiore quantità di carta erano in ordine decrescente: gli Stati Uniti con 40.909.000 tonnellate annue, il Giappone con 16.546.000, la Germania con 11.279.000, la Cina con 8.760.000, la Corea del Sud con 4.530.000 tonnellate annue, la Francia con 4.270.000, il Canada con 3.110.000, l’Italia con 2.784.000, la Svezia con 1.323.000 e la Finlandia con 607.000 tonnellate annue. Fonte: mensile italiano di divulgazione scientifica “Newton”.
[2] Infatti tanto progresso tecnologico avrebbe potuto permettere a tutti di lavorare di meno, lavorando tutti - dicasi "piena occupazione" -, ma il tutto si è invece tradotto in generale in nuove immense masse di disoccupati, tranne che in isole felici come la Danimarca, o in altro modo in Cina, dove la disoccupazione viene tamponata con la continua realizzazione di grandi opere pubbliche di ogni genere.
[3] Tra i tanti suoi scritti sul suo pensiero, purtroppo quasi tutti non tradotti in lingua italiana troviamo: “Ecologie urbane”, di Luigi Cavallari e Lucien Kroll, Milano 2001.
[4] Si tratta di un articolo di J. Rabinovitch e J. Leitman comparso su Le Scienze, edizione italiana di “Scientific American”, n° 334 del giugno 1996 e intitolato “Pianificazione urbana a Curitiba. Una città brasiliana controcorrente: poca tecnologia e molta saggezza hanno migliorato sensibilmente la qualità della vita in uno dei centri urbani in più rapida espansione dell’America Latina”.
[5] In realtà le Leggi italiane sul cosiddetto Condono Edilizio (L. n° 47/1985, L. n° 724/1994, L. n° 326/2003), non hanno mai autorizzato di per sé edificazioni improprie in aree vincolate idrogeologicamente, in particolare quelle a rischio alluvioni, frane, smottamenti. Difatti le procedure di sanatoria edilizia prevedono per le edificazioni abusive su aree vincolate appositi nulla osta rilasciati dalle autorità competenti. Pareri favorevoli, cioè i “nulla osta”, i quali non verranno mai rilasciati se per esempio un edificio abusivo sorge su un terreno soggetto a frane, alluvioni o quant’altro simile. Per intenderci, se per una determinata domanda di sanatoria edilizia di un edificio abusivo costruito su terreno soggetto ad alluvioni non viene rilasciato il necessario nulla osta, automaticamente la domanda stessa di sanatoria viene respinta, e di conseguenza tale edificio abusivo dovrà essere demolito con relativa ingiunzione di demolizione. Fatto sta, che la realtà dei fatti è ben diversa. Accade che la pratica di sanatoria per la quale è necessario chiedere il nulla osta langua per vari motivi per anni e decenni tra gli scaffali degli archivi degli uffici tecnici comunali. Così nessuno sarà mai costretto a chiedere alcun nulla osta, e nessuna pratica di sanatoria verrà mai respinta. Poi però la realtà ci ricorda, purtroppo tragicamente, che la natura non si può ignorare con un artificio burocratico: frane, alluvioni e terremoti continuano a mietere vittime senza chiedere il permesso a nessuno.
[ omissis ]
S.I.A.E. tutti i diritti riservati © Dott. Arch. Michele Leonardi
S.I.A.E. all rights reserved © Dott. Arch. Michele Leonardi