LO SVILUPPO SOSTENIBILE
E L'ARCHITETTURA
Verso un altro habitat - Vol. I, Cap. 2
QUANDO
iniziai a scrivere questo libro l'architettura sostenibile non era un concetto così noto, né in voga o abusato come oggi. Dico abusato, perché l'unico tipo di architettura veramente sostenibile allo stato attuale è dato grosso modo dalle case e dalle costruzioni in argilla e reperita sul luogo.
Per anni ho tenuto questo libro nel cassetto, mentre indagavo a fondo sulle concrete possibilità dell'umanità di non autodistruggersi e sulle sue residue possibilità di salvezza. Di qui interrogavo vari sapienti, sentendo le più disparate analisi, conclusioni ed opinioni attraverso numerosi testi specialistici e saggi scritti per lo più da ricercatori e da docenti universitari di tutto il mondo. Così constatavo una volta di più che molti tra questi indulgevano al pessimismo, mentre ben pochi andavano al di là di una semplice analisi critica, oppure ancora dopo qualche centinaio di pagine di assoluto rigore, alla fine proponevano nell'arco di due sole pagine delle soluzioni fanciullesche, concettualmente del tipo: "se facciamo tutti i buoni, allora ci salveremo", farcite dei soliti: "sacrifici", "resilienza", eccetera.
Ritornando a questo libro, stavo dicendo che ha avuto una lunga gestazione, poiché non trovavo un vero motivo per cui valesse la pena di pubblicarlo. Eppure un editore che mi sosteneva, cioè il Dott. Narici di Roma con la sua casa editrice Dedalo, nonché uno sponsor, li avevo trovati fin da subito. Difatti almeno in Italia, come mi confermava lo stesso Narici, i libri di architettura non hanno un immediato rientro economico, quindi abbisognano di una forma di sponsorizzazione per finanziarne i costi di stampa. Pertanto per diversi anni tenni le bozze del mio libro e tutto il materiale cartaceo annesso chiusi entro dei faldoni, ma pure maniacalmente memorizzato in tante successive versioni su ogni tipo di supporto, tanto per dargli un minimo di considerazione: floppy disk, compact disk, memory card. Finché nei primi mesi dell'anno 2012 dopo Cristo scoprii grazie a una pubblicità televisiva - di quelle non aggressive, gentili e una tantum - che esisteva la concreta possibilità di creare facilmente da soli un sito internet senza dover interpellare costosissimi specialisti e programmatori web. Di qui fu per me immediato pensare alle utili applicazioni che ne sarebbero derivate, almeno a livello personale: poter pubblicare on-line il mio libro senza dovermi barcamenare tra editore, sponsor, grafico e chissà chi altri ancora. Cosa che feci di lì a pochi giorni.
Ora, dando per scontato che il lettore abbia in qualche modo assimilato il concetto di "architettura sostenibile", se non già ne conosca l'essenza, in questa sede ci interessano soprattutto determinate sue finalità e principii, nonché ci interessa evidenziarne fin da subito i forti limiti, cioè quando l'architettura sostenibile viene acriticamente accolta come una forma di principio salvifico.
L’architettura sostenibile, o la bioarchitettura, sono meglio dell’edilizia “insostenibile” e ad essa preferibili, ma non è abbastanza.
L’architettura sostenibile è per il momento, come già accennato, mera tecnica. Non basta che sia quello che è oggi. Nonostante i notevoli traguardi e risultati raggiunti, e nonostante gli scenari che essa apre per il futuro dell’architettura, la bioarchitettura non è ancora architettura organica, vale a dire che la prima va potenziata. Ripartiamo allora dallo sviluppo sostenibile.
In tutto il mondo l’idea di sviluppo sostenibile non appartiene più solo ai movimenti ambientalisti o ad un solo gruppo politico, ma è diventata una necessità programmatica dichiarata e un obiettivo da raggiungere di tutti i gruppi politici responsabili, composti da persone dotate di occhi per vedere, orecchie per sentire, e bocca per parlare anche di cose serie.
Trattandosi di una strategia di lungo termine, lo sviluppo sostenibile abbisogna tuttavia da parte delle comunità di una capacità di adattamento fuori dall’ordinario, perché i suoi tempi di attuazione e le sue finalità oltrepassano l’arco dell’esistenza di ciascun individuo e sono tempi che vanno ben oltre il breve lasso di tempo che intercorre tra una campagna elettorale e l’altra, per quanto riguarda i politici; motivo per cui è appunto difficilmente attuabile.
L’individuo in genere tende infatti a mettere in atto strategie che dal punto di vista collettivo e generazionale sono da considerarsi di breve termine. Lo stesso vale per le società umane nei confronti del rapporto con l’ambiente naturale, essendo le società composte di singoli individui e quindi improntate al comportamento dei singoli individui.
Affinché lo sviluppo sostenibile diventi un fatto culturale per la collettività, occorre superare la soglia dell’etica del contingente e quella delle sole buone norme comportamentali. Questa modalità comportamentale infatti dovrebbe divenire una esigenza spirituale, essere interiorizzata, sentita come valore.
Molti invece si aspettano la soluzione ai nostri problemi unicamente dalla tecnica. Secondo questo atteggiamento attendista saranno le nuove tecnologie e il mercato del settore a fornirci nuovi materiali biodegradabili e riciclabili, nonché nuove tecnologie ecocompatibili. Cosa senz’altro in essere e auspicabile su vasta scala, ma non è così che ci si responsabilizza, affidando il proprio destino all’oggettistica e ai prodotti industriali miracolistici; questa è la via della tecnocrazia e della tecno-dipendenza.
La tecnologia, pure se “ecologica”, non può essere un fine, cioè non può essere fine a sé stessa.
[ omissis ]
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